Era una finale designata quella attesa alla edizione 2015 della Copa America svoltasi in Cile. Argentina e padroni di casa sono giunti a disputarsi il titolo di regina del Sud America. L’esito avrebbe segnato la storia di questa competizione: per il Cile era in palio un posto nella Storia, non avendo mai vinto il titolo, per i platensi il ritorno alla vittoria dopo ventidue anni, ma soprattutto regalare il primo trofeo importante a questi livelli al suo giocatore più rappresentativo, Leo Messi. Una finale giusta, con i padroni di casa anche agevolati nel girone e nel percorso, ma meritevoli nel gioco rispetto al contesto, così come per gli argentini, a tratti di una superiorità quasi imbarazzante (nella foto Gazzetta.it-Action Images: la festa dei giocatori del Cile).
Il match. La partita si dipana seguendo l’evoluzione quasi naturale delle finali, con buona intensità, tanta tensione e grande equilibrio, demandando il verdetto ai soliti tiri di rigore. Qui sono i cileni a trionfare, con gli errori decisivi di Gonzalo Higuain (tiro alto come contro la Lazio all’ultima di campionato) e Ever Banega (parato); il rigore del trionfo cileno è trasformato da Alexis Sanchez. Nell’analisi conclusiva complessiva di tutto il torneo, da notare quanto sia straordinaria la metamorfosi che hanno tanti protagonisti che calcano i campi di tutta Europa, noti, la maggior parte di essi, per le grandi qualità tecniche, ma che nella loro competizione continentale si trasformano, vivendo un calcio primordiale, quasi primitivo, ricco di scontri, con la grinta, la famosa garra, che prevale su tutto, posando il fioretto ed estraendo non la spada, ma la clava.
Copa America dura. Abbiamo assistito a match ricchi di scontri, spezzettati da falli, quasi da caccia all’uomo, con tante ammonizioni ed espulsioni, e una classe arbitrale molto lontana dalle capacità gestionali degli omologhi europei. La sintesi si può racchiudere tutta nell’esaltazione dei vincitori, i debuttanti, nell’albo d’oro, cileni che hanno coronato il sogno di un pueblo intero, e con il fallimento di altre grandi attese. Innanzitutto il Brasile, che continua a vivere il suo momento di smarrimento un anno dopo il Mineirazo, con Dunga che mostra limiti gestionali già evidenziati in passato, con i verdeoro che continuano a far essere orfani piangenti i loro tanti estimatori.
Le deluse: Brasile e non solo. Accomunati ai brasiliani possiamo aggiungere Uruguay e Colombia: mentre per la Celeste, però, si può parlare di un ricambio generazionale in atto, per i Cafeteros si è trattato di un vero fallimento dopo i fasti mostrati ai Mondiali brasiliani, con José Pekerman ancora sul banco degli imputati per la sua difficoltà nel gestire tanti campioni. È, soprattutto la sconfitta dell’Argentina e di Leo Messi: in una squadra composta da tanti, conosciuti, campioni (Angel Di Maria, Javier Pastore, Javier Mascherano, tra gli altri), il fuoriclasse del Barcellona risulta ancora una volta assente nel momento topico, rimanendo un campione incompleto. Ha vinto il Cile di Arturo Vidal, di Gary Medel, ma soprattutto del pueblo che ha letteralmente accompagnato la sua squadra fino alla vittoria finale. Que viva Chile!
*Storico dello sport
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