di DOMENICO MACERI* – L’attacco di Donald Trump alla Siria “viola ogni promessa fatta in campagna elettorale e potrebbe addirittura affondare la sua presidenza”. Lo ha scritto Ann Coulter, l’opinionista conservatrice che spesso spara grosso, nelle pagine di Breitbart News, il sito giornalistico di ultra destra il cui ex direttore è Steve Bannon. Coulter è stata grande sostenitrice di Trump durante la campagna elettorale, ma vede il caso della Siria come tradimento del 45° presidente alla promessa di America First (prima di tutto l’America), auspicata da Bannon, importante consigliere dell’inquilino alla Casa Bianca.
Trump ha sorpreso molti con la “punizione” inflitta a Bashar Assad per il presunto uso delle armi chimiche. La stampa americana ha approvato e in alcuni casi persino lodato l’attacco, che sembra gli sia stato ispirato dalla sensibilità della figlia Ivanka per i bambini, come ha rivelato il figlio Eric in un’intervista al Daily Telegraph. Ma, al di là di chi lo ha ispirato, Trump ha agito principalmente per ragioni di realpolitik abbandonando l’isolazionismo favorito dal suo stratega Bannon e spostandosi verso vedute dell’establishment repubblicano alla ricerca della possibilità di ribaltare i sondaggi che lo davano a un consenso molto basso, del 35 per cento.
L’idea che Trump abbia scoperto una sensibilità verso i bambini non convince, considerando il fatto che lui cambia sempre le sue posizioni come pure i suoi consiglieri. La campagna elettorale ce lo conferma. Quando le cose non andavano molto bene Trump mandò via Corey R. Lewandowski, il primo manager della sua campagna, perché troppo bellicoso. Lo sostituì con Paul Manafort, un manager più tradizionale, mandato via poi per i suoi legami controversi con la Russia. Successivamente entrò in scena Bannon, allora direttore di Breibart News e grande sostenitore dell’ultra destra Tea Party, divenendo un fidato stratega del 45° presidente. Allo stesso tempo però Trump aveva già inserito nella cerchia dei suoi consiglieri la figlia Ivanka e il marito Jared Kushner.
Dopo l’elezione Trump ha continuato ad ascoltare Bannon come ci rivela il discorso di insediamento che ha insistito sugli aspetti negativi e l’America first. Poi le cose sono cambiate. La débacle dell’abrogazione dell’Obamacare è stata attribuita da Trump in parte a Paul Ryan, speaker della Camera bassa, ma anche a Bannon, la cui minaccia ai parlamentari del Freedom Caucus contribuì non poco a silurare il disegno di legge. Il bando ai musulmani, altro fiasco delle prime settimane della presidenza di Trump, è stato anche attribuito in grande misura a Bannon.
Trump ha capito che il suo fidato stratega lo stava conducendo alla deriva e ha deciso di oscurare la stella dell’ex direttore di Breitbart News. Per degradare Bannon, Trump lo ha fatto escludere dal Consiglio di sicurezza e lo ha persino ripreso pubblicamente per dei battibecchi con Kushner, venuti a galla poche settimane fa. Il genero, al momento, sembra avere eclissato tutti gli altri consiglieri e avere l’ascolto di Trump, che lo ha incaricato di apportare migliorie alle procedure del governo, ma gli ha dato anche incarichi nel campo diplomatico. Gli analisti ci dicono che la “sterzata” di Trump verso una politica più tradizionale si deve proprio al genero, che Bannon aveva persino accusato di essere democratico. Bisogna aggiungere in questa luce anche il dietro front di Trump riguardo la Cina che adesso non vede più come nemico bensì come possibile intermediario per mettere freni alla bellicosità del coreano Kim Jong-un.
L’allontanamento da Bannon verso una politica più centrista ha fatto sorridere l’establishment repubblicano riportando gli Stati Uniti a una politica estera poco lontana da quella dell’amministrazione di George Bush figlio. Una politica caratterizzata da una postura militare che ovviamente si piazza diametralmente all’opposto della retorica del Trump candidato.
Alcuni sono rimasti sorpresi da questo nuovo Trump senza capire che al 45° presidente manca un centro di idee alle quali lui crede veramente. Trump dice una cosa un giorno e poi cambia idea negando quello che aveva asserito il giorno prima. Durante la campagna elettorale ci aveva detto che l’America non sarà il “poliziotto globale” e che le forze armate americane erano un “disastro”. Adesso sembra proprio il contrario. L’inquilino della Casa Bianca ha però capito che se in politica interna ha bisogno della legislatura, che si è rivelata poco affidabile eccetto per qualche successo al Senato, in politica estera il commander-in-chief ha campo più o meno libero. I poteri del presidente di agire senza contrappesi sono molto più ampi in politica estera specialmente quando si parla di sicurezza nazionale. L’inizio di azioni militari senza chiedere il permesso alla legislatura creerà qualche battibecco ma alla fine quando i soldati americani sono in pericolo tutti ritrovano il patriottismo e approvano le azioni del presidente.
Prima di sferrare i missili sulla Siria solo il 35 per cento degli americani approvava l’operato di Trump. Un recentissimo sondaggio pubblicato sul giornale The Hill ci dice che la cifra adesso è aumentata al 41 per cento. Trump potrà sorridere alla notizia, ma le nubi che stanno emergendo dalla penisola coreana con l’imprevedibilità di Kim Jong-un non rendono nessuno tranquillo.
*Domenico Maceri è docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com)
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