di ENNIO SIMEONE – Non farei mai il sindaco! Mi rifiuterei di farlo non solo in una città-monstre come Roma (vissuta dal doppio degli abitanti che risultano all’anagrafe, cioè da almeno un milione e mezzo di persone in più disseminate su una superficie con oltre 40 chilometri di diametro, che non pagano qui le tasse ma qui producono rifiuti e traffico). Ma mi rifiuterei di fare il sindaco anche in città con territori molto più piccoli e concentrati, come Torino o Milano, storicamente ben organizzate, abitate da persone abituate da sempre ad una cultura dell’ordine. Ma dico di più: il sindaco non accetterei di farlo neppure nella mia città d’origine, che conta solo cinquantamila abitanti, e neppure nel delizioso centro lucano che vanta le più belle spiagge della penisola e dove trascorro da anni la vacanza estiva.
Perché? Perché non vorrei dover trascorrere le mie giornate nelle aule giudiziarie: non da cronista, come mi è sempre piaciuto fare nella vita, ma da imputato. E imputato non per reati come la «diffamazione a mezzo stampa» (mi è capitato diverse volte, uscendone sempre orgogliosamente assolto!), ma per reati infamanti, che mi vedrei appioppati di certo ingiustamente per il maniacale rispetto che ho, ho sempre avuto e sempre avrò nei confronti delle regole e delle leggi (anche quando le ritengo ingiuste o sbagliate), oltre che nei confronti dei principi di correttezza ed onestà.
So che non potrei sfuggire a questa sorte. Me ne rendo conto ogni giorno leggendo e scrivendo le cronache del nostro Paese. Ormai i tribunali italiani sono intasati di fascicoli accusatori intestati a sindaci di ogni regione, di ogni provincia, di ogni colore politico. Credo che ormai quella dei sindaci sia la categoria di cittadini («primi cittadini»… anche in questo) più processata d’Italia.
Ricordate il vecchio motto «Piove, governo ladro»? Oggi lo si può aggiornare: «Piove, sindaco ladro!»
Nelle ultime ore siamo stati costretti – per «dovere di cronaca» – a citare i processi a cui vanno incontro i sindaci – in ordine di grandezza, ma senza differenze di colore politico – di Roma, Milano, Torino, Livorno, Taranto.
Che cosa penseranno i cittadini italiani? Immaginabile: «Siamo amministrati da persone che abbiamo votato sulla fiducia e che invece si sono rivelate essere imbroglioni, ladri, corrotti, e persino… assassini, visto che un paio di quelli che abbiamo citato sono accusati di concorso in omicidio colposo».
Noi speriamo che – chissà quando, visti i tempi della nostra macchina giudiziaria – siano tutti prosciolti o assolti, anche se nel frattempo – sempre vista la lentezza della nostra giustizia – si vedranno arrivare sul groppone altri «avvisi di garanzia» d’ogni specie.
Ma questo auspicio non ci autorizza all’ottimismo, perché il problema non troverà soluzione fino a quando non sarà attuata in Italia una vera, radicale Riforma della Giustizia, che restituisca all’Italia il titolo, ormai desueto e mendace, di «culla del diritto». Una riforma che cancelli l’obbligatorietà dell’azione penale così come è concepita oggi, che scatta cioè di fronte a qualunque denuncia con automatico avviso di garanzia; una riforma che scoraggi le denunce e le querele temerarie e restituisca all’«avviso di garanzia» il valore di protezione (e non di diffamazione) della persona accusata, impedendone la degenerazione in «condanna presunta»; una riforma che snellisca e semplifichi drasticamente le procedure e ne tagli i tempi sia per il processo penale che per quello civile.
E’ la riforma più necessaria e urgente anche a beneficio dell’economia, ma nessun partito ne parla in campagna elettorale perché non porta voti, anzi rischia di farne perdere, e perché richiede una cultura giuridica e una «terzietà» che nessuna forza politica è in grado di mettere in campo. E allora i vari partiti cercano di frastornarci parlando di vaccini e di bonus, o di fantomatici tagli di tasse che magari non hanno mai pagato e di leggi che non hanno mai letto.
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