“Io non mi dimetterò mai. Non mi faccio da parte perché ho una dignità e perché amo questo club, ma resto anche per un’altra ragione: il Chelsea non troverà mai un allenatore migliore del sottoscritto”. Parole e musica di Josè Mourinho, naturalmente, nell’intervista rilasciata pochi minuti dopo l’ennesima gara persa di questo sciagurato, per lui, inizio di stagione, quella contro il Southampton, un umiliante uno a tre casalingo. Peccato che il portoghese, nei suoi abituali deliri logorroici, dimentichi di spiegare i motivi della crisi che attanaglia i londinesi, come impietosamente dimostrato dai numeri: Terry e compagni hanno perso sei delle undici gare ufficiali disputate finora, realizzando diciassette reti, ma subendone ben venti.
Cosa succede, dunque, ai “Blues” di Roman Abrahmovic? In mancanza del verbo mourinhiano che ci illumini, basta la lettura dei numeri per capire che la squadra è esausta, incapace di reagire e di mostrare quel carattere preteso dal suo allenatore, e suo stesso marchio di fabbrica, una squadra cui basta la minima contrarietà per sfaldarsi di fronte a qualsiasi avversario. In tutto questo, in qualsiasi squadra normale partirebbe l’analisi delle responsabilità e qualsiasi tecnico se ne accollerebbe la maggior parte. In qualsiasi squadra, ma non in quelle allenate dallo “Special One”, in cui le colpe degli insuccessi sono sempre degli altri, e mai le sue. In realtà è proprio il passaggio del portoghese a creare una consunzione abnorme dei suoi giocatori, con un consumo di energie tale da lasciarli esausti e, quel che è peggio, inermi e senza difesa nei momenti di difficoltà.
Mou: vincente e polemista. Il Nostro, nel corso degli anni, ha costruito la sua carriera e la sua “leggenda” sulle vittorie ma anche sulle polemiche, costruendo nulla dal punto di vista tecnico potendo gestire alcuni dei migliori giocatori del pianeta ma, nonostante questo, spesso svilendoli a ruoli tecnici da comprimari, evitando accuratamente che potessero mettersi troppo in luce facendo ombra alla sua figura. Non è un caso che Mourinho, parlando della Champions League, la competizione che, in fondo, lo ha reso famoso, l’abbia vinta ad Oporto ad inizio carriera e poi all’Inter plasmata a sua immagine, abbia però fallito al primo Chelsea e, soprattutto, al Real Madrid. Qui, incapace di poter scendere almeno al livello di “stella tra le stelle”, nel solito delirio di onnipotenza che prevede la sua come unica luce del firmamento, ha dato il peggio di sé vincendo in pratica niente, ma mai provvedendo a fare un briciolo di autocritica che sarebbe servito a far migliorare il suo rapporto con l’ambiente.
Special One un po’ meno Special. Sia chiaro: riuscire ad ottenere quello che ottiene lui nelle squadre dove allena, le sue capacità di gestire, nel bene o nel male, tante stelle, resta il suo merito maggiore. Pensare di essere l’allenatore migliore sempre, senza mai mettersi in discussione e accollarsi un minimo di responsabilità, suona francamente stridente e inaccettabile. Mourinho in ogni suo atteggiamento e dichiarazione si professa condottiero. Ma, diceva Napoleone, “il ruolo di un condottiero è di definire la realtà e di dare speranza”. Nella sua illusione di onnipotenza, quale realtà definisce lo “Special One” e quali speranze dà ai suoi uomini e ai suoi tifosi?
*Storico del calcio
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