di NUCCIO FAVA – Lo chiamavano Ponte Morandi (dal nome del progettista), superava di slancio lo scorrere del Polcevera collegando le due parti della città in modo avveniristico. Era considerato – e non solo dai genovesi – struttura analoga a quella di New York, il ponte di Brooklyn, in piedi da oltre 100 anni. Quello di Genova era stato inaugurato nel 1967 con una grande cerimonia, alla presenza del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Lo attraversavano milioni di viaggiatori e di camionisti, provenienti o diretti anche in Francia e verso Lombardia e Piemonte. Insomma, un incrocio cruciale – giorno e notte – per il mondo del lavoro e degli affari, indispensabile anche per l’accesso al porto e l’imbarco di crocieristi e passeggeri.
Una tragedia immane non soltanto per Genova. Come ai tempi della guerra.
E già dal primo pomeriggio del 14 agosto sono piovute ininterrotte le dichiarazioni di ministri e politici, alcune con sfumature polemiche e strumentalizzazioni di sapore elettoralistico, forse inevitabili nelle condizioni attuali della politica, ma dal suono comunque sgradevole e inopportuno.
Nella sua drammaticità resta però – insieme alla commozione e allo sgomento – l ’urgenza di una riflessione corale per dar vita a un grande piano di investimenti e di interventi urgenti per mettere in sicurezza l’Italia.
Citeremo due sole voci: quella di un magistrato, il procuratore di Genova, che ha risposto di non credere alla fatalità, e quella dell’architetto Piano, che oltre al dolore e allo sgomento di vecchio genovese, ha affermato che la grande opera ormai era a rischio e si sarebbe dovuto intervenire da tempo.
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