Nel paese dei complotti (spesso veri e spesso inventati), delle menzogne propalate con disinvoltura tra perentorie smentite e titubanti conferme, delle tante inchieste che si aprono e il più delle volte si chiudono solo dopo anni di permanenza in archivi polverosi, è difficile districarsi tra il vero e il falso e distinguere tra persone per bene e millantatori.
Questa ennesima vicenda De Luca (in realtà è una nuova puntata di una telenovela politico-giudiziaria con lo stesso protagonista – il presidente della Regione Campania – intorno al quale si avvicendano comparse e comprimari di volta in volta diversi) ne è la conferma sconfortante.
Di fronte alla indignata, anche se istrionica, conferenza stampa tenuta davanti alle telecamere mercoledì 11 novembre dal “governatore” – che diceva di non sapere “niente di niente e di niente” della inchiesta che lo vede coimputato di concussione per induzione insieme con un giudice (Anna Scognamiglio), il marito di costei (Guglielmo Manna), il capo della sua segreteria in Regione e membro della segreteria regionale del Pd (Mastursi), un avvocato esponente del Pd di Avellino (Vetrano), e due infermieri nel ruolo di intermediari, e che anzi invitava la magistratura a procedere senza indugi nella sua indagine – era giusto e persino doveroso concedergli, sia pur provvisoriamente, il beneficio sincerità. Ed è ciò che abbiamo fatto. Noi come altri.
E invece avremmo dovuto essere ancor più prudenti e diffidenti. Si è appreso il giorno dopo che De Luca sapeva molto più di niente. Sapeva, quanto meno, che vi era stata una perquisizione a casa Mastursi il 19 ottobre, tant’è che il 29 dello stesso mese lui aveva chiesto alla Procura della Repubblica di essere ascoltato come “persona informata sui fatti” (quali fatti, se “non sapeva niente di niente e di niente”?); sapeva che Mastursi dopo quella perquisizione aveva presentato le dimissioni dall’incarico che lui gli aveva affidato e successivamente anche dall’incarico che aveva nel Pd; sapeva di essere stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Roma (competente per le questioni che riguardano i magistrati napoletani) benché tenuto a un doveroso riserbo.
Non possiamo affermare che De Luca fosse al corrente, prima di quelle date, di tutti i particolari della concussione che era stata tentata nei suoi confronti, ma non riusciamo a capire come mai non se ne fosse reso conto o non se ne fosse accertato almeno 24 ore prima di convocare quella conferenza stampa.
E’ credibile che un politico navigato, abile, decisionista come lui non si sia reso conto di ciò che in cinque mesi si tramava intorno a lui, per lui e contro di lui? Eppure le indagini (e le relative intercettazioni) portano quanto meno a sospettare (anche se non ad affermare con giudiziaria certezza) che il marito del giudice estensore della sentenza che accoglieva il suo ricorso contro l’applicazione della legge Severino (e gli garantiva la permanenza al vertice della Regione) avesse chiesto per sé un posto prestigioso nella sanità campana, altrimenti la decisione di sua moglie sarebbe stato di segno diverso.
Dice comunque De Luca: “In questa vicenda io, semmai, sono parte lesa”. No. Con la nuova configurazione del reato di concussione per induzione, cioè la costrizione di un pubblico ufficiale a compiere un atto illecito, è colpevole non solo chi fa la minaccia ma anche chi la subisce e non la denuncia. Ed è giusto che sia così. Ma chi è ricattabile si comporta diversamente. Ed è ciò che rinfacciano gli avversari politici (esterni ed interni) a Renzi: pur di vincere le elezioni in Campania hai avallato la candidatura di De Luca alle primarie, pur sapendo che era sotto la spada di Damocle della legge Severino (e di chi poteva servirsene). Ora devi pagarne le conseguenze.
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