Giovanni XXIII, prevedendo prossima la fine del pontificato, e in pensiero per il sommovimento che può provocare il Concilio ecumenico da lui indetto nel 1962, s’appresta a indicare il proprio successore già in una lettera di poche righe al cardinale Giovanni Battista Montini. Che infatti, gli succede il 21 giugno 1963. Toccherà a lui, con il nome di Paolo VI, raccoglierne l’eredità enorme, portarlo a compimento, rivedendo temi disciplinari e morali al fine di renderli più adatti ai tempi, ma senza snaturarne l’essenza. E sin da subito dichiara: “Difenderemo la Chiesa dagli errori di dottrina e di costume”, offrendo una chiave di lettura della linea pastorale del suo pontificato. Molti e diversi sono i nodi che il Papa nuovo deve affrontare: non sopporta, ad esempio, le resistenze dei padri restauratori, fra i quali uno dei più strenui è il francese Marcel Lefebvre, dissidente poi sospeso “a divinis”, di fatto scismatico, che addirittura accusa di eresia il Concilio e lo stesso pontefice.
Penso al caso del “catechismo olandese”, o a quando, tra il 1967 e il 1969, deve affrontare la situazione esplosa con il ’68 anche nella Chiesa, che non può ignorare o rimandare. Erano gli anni in cui pubblica l’enciclica sul celibato dei sacerdoti e quella sul controllo delle nascite, la “Humanae Vitae”, che costituisce un decisivo rifiuto e una netta condanna dell’aborto.
Ma è con la pubblicazione di “Ecclesiam Suam” e “Populorum Progressio” che Paolo VI instaura, nel solco aperto da papa Roncalli, il dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo, intuendo che è il mondo che il Papa deve visitare di persona. Per questo decide di viaggiare in paesi diversi, a predicare il valore della pace e della fratellanza, a ribadire il rispetto delle differenze nella Chiesa. Nel 1964 è il ritorno alle origini con il pellegrinaggio in Terra Santa e l’abbraccio col Patriarca Atenagora I; segue il viaggio apostolico in India, e nel 1965 la visita all’Onu con il discorso contro gli armamenti, per la giustizia e la pace.
Affermò in diverse circostanze che ” lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Parole inequivocabili quelle di Paolo VI, che nell’indicare nello sviluppo la “chiave della pace”, pensa di istituire nel 1968 la “Giornata mondiale per la pace“, da celebrarsi il primo gennaio, che assumerà un valore particolare per coloro che hanno inteso rivalutare il suo magistero e le sue decisioni.
Per questo Papa, che ha già messo in conto il peso del Concilio, mediare le riforme salvando la tradizione è un impegno che toglie sonno e pace. Venuto a contatto con i più reali problemi della vita moderna, ricca di fermenti, cerca di coglierne l’essenza e non risparmia lettere e discretissimi inviti al dialogo ad ogni livello, a fianco e in comunione con tutti gli uomini, cristiani e non cristiani, agnostici in crisi e in ricerca.
Il sì a una moschea a Roma
prova del suo spirito ecumenico
Ci sono episodi di lui che segnarono di spirito ecumenico i rapporti personali con vescovi e sacerdoti, laici, diplomatici, rappresentanti di tutte le religioni. Come quando, nel 1972, interpellato direttamente circa la proposta al governo italiano e alla Santa Sede di costruire una grande moschea in Roma e di un centro culturale islamico, disse subito che non aveva nulla in contrario con l’iniziativa, per un luogo di preghiera per i credenti musulmani, e che anzi tale iniziativa era benvenuta dato che il Concilio, concluso nel 1965 con la dichiarazione “Nostra Aetate“, aveva aperto le porte ad un dialogo cordiale e rispettoso, con tutti gli altri credenti, a cominciare da coloro che da molti secoli affermano la fede in un unico Dio, come gli ebrei e i musulmani.
Con il Concilio Vaticano II i papi hanno acquisito che la Chiesa si è data una svolta storica in ogni senso: si è, per così dire, “convertita al mondo” ricordandosi che “è nel mondo non per il potere ma per il servizio”, in un obiettivo di evangelizzazione e di dialogo a tutti i livelli e con tutti gli uomini credenti e non credenti, al di là delle proprie confessioni religiose o politiche.
Fu proprio Paolo VI il 4 ottobre 1965 ad affermare davanti all’assemblea delle Nazioni Unite che il potere dei Papi e del Papato è oggi ridotto più ad un “simbolo” che ad una realtà, tanto è esiguo. Sembra fin troppo evidente che dal 20 Settembre 1870, cioè dalla fine del potere temporale con la Breccia di Porta Pia, la Chiesa vive e annunzia il Vangelo con coerenza, senza divisioni, scomuniche, torture.
Non è per pura ritualità, ma per riconoscere con un gesto il valore positivo dell’unità d’Italia, che papa Paolo VI volle, il 20 settembre 1970, a un secolo esatto dalla Breccia di Porta Pia, far celebrare dal suo vicario per Roma, cardinale Angelo dell’Acqua, una pubblica messa sul piazzale stesso della porta. E, dallo stesso giorno, Paolo VI sciolse tutti i corpi armati pontifici, che ancora restavano nel piccolo Stato vaticano, tranne la secolare Guardia svizzera, dal 1506 impegnata nella difesa della “Sacra Persona” del vescovo di Roma. Fu un gesto che aprì l’epoca nuova e che fece seguito ai documenti del Concilio Vaticano II.
Montini diplomatico e intellettuale, pieno d’idee e incline all’arte, sapeva che il mondo marciava in fretta ed era apertissimo a nuove sperimentazioni nei vari campi, spesso avvalendosi della collaborazione di enti e istituzioni straniere che da tempo svolgevano nei loro paesi il compito di analizzare e comprendere tendenze e linguaggi che dominavano la creatività di allora. Alla domanda posta da taluni sull’allontanamento del mondo culturale dalla Chiesa, rispose che forse non sarebbe stato inopportuno che la Chiesa desse testimonianza del suo interessamento alla vita culturale, così anticipando le basi di un dialogo in divenire che avrebbe riguardato anche il tema del rapporto tra la Chiesa e l’arte. Di questo suo agire audace e moderno diede prova fin dal tempo di “Azione Fucina” e in altri scritti, confermati poi nell’insegnamento del suo pontificato portando a termine le riforme già iniziate con discrezione e audacia da Pio XII, dal quale, con monsignor Tardini, è chiamato a reggere la Segreteria di Stato per un decennio, ricoprendo alti incarichi, e del quale fu uno dei maggiori responsabili e collaboratori delle scelte politiche e nell’impresa di misericordia e di giustizia negli anni tragici della guerra.
La FUCI: un segnale verso giovani che diventeranno
uomini-chiave della classe dirigente, come Aldo Moro
È negli anni Venti che fonda, con Igino Righetti, la Federazione universitari cattolici italiani, più nota come Fuci, conquistandosi le simpatie di quell’ambiente: conosce Giampietro Dore, Aldo Moro (foto a lato), e altri laureati cattolici, che in seguito saranno uomini-chiave della classe dirigente politica d’Italia. Fedele al pensiero del suo maestro e amico Jacques Maritain, del quale aveva tradotto alcuni testi, lo divulga tra i giovani con i quali ha un rapporto molto speciale, condivide tante idee per la libertà e la pace.
È sorprendente come da pontefice, tra tante questioni alle quali doveva badare, arrivasse a tutto, anche a seguire le attività del mondo culturale e artistico di allora. In una realtà di estetiche in contrasto, di forme stilistiche tanto diverse, di avanguardie più o meno accettabili, non manca certo di pregiare l’arte “filia temporis” e seguire abbastanza da vicino l’opera di scrittori e pittori che riceve ogni anno in udienza. E verso i quali in più di un’occasione ostenta simpatia, apprezzandone le novità, spronati ” a che le opere concepite e stese secondo i più raffinati criteri estetici, si propongano sempre un’elevata finalità educativa”. Dicendo amabili parole, chiedendo notizie e formulando discreti suggerimenti e lodi sul lavoro di ciascuno, che abbia il fine di “creare capolavori di bellezza, che sollevino gli spiriti verso Colui che di ogni bellezza è la sorgente prima, anzi unica”.
Di alcuni di essi che tornavano, specialmente se giovani, ricordava di un anno all’altro il nome e la professione artistica alla quale erano avviati. Nella sua tollerante disponibilità non solo accolse, dando voce, ma fece proprie le istanze degli artisti radunati eccezionalmente nella Cappella Sistina, in Vaticano, dietro invito del papa, il 7 maggio 1964, ai quali rivolse un importante discorso della più ampia apertura, nel quale auspicava, con tanto fervore, “il patto di riconciliazione e di rinascita dell’arte religiosa, in seno alla Chiesa cattolica”. Anche in quella occasione non mancò di sottolineare la peculiarità della presenza degli artisti nel corpo ecclesiale, confermando la sua stima, precisando il suo pensiero sull’arte moderna, in modo che nuovi soggetti, criticamente selezionati, possano figurare degnamente accanto ai capolavori dell’antichità.
E quando in Italia esplode il terrorismo e il suo amico Aldo Moro é prima sequestrato e poi ucciso dalle brigate rosse nel marzo 1978, non manca di pregare e di impetrare la salvezza dello statista democristiano. Era stata toccata profondamente la sua vita, prova dispiacere, è visibilmente angosciato, tanto da dare l’impressione di sapere che la sua ora è vicina.
Paolo VI, figura di grande rilievo culturale e profetico, capace di interpretare le nuove sfide che attendono la Chiesa, muore nella semplicità di Castel Gandolfo, la residenza estiva dei papi, il 6 agosto del 1978. Il ponentino di quel malinconico pomeriggio muove e sfoglia continuamente le pagine del Vangelo sopra la bara d’acero, mentre una folla silenziosa partecipa alla messa di requiem sulla piazza. Quella piazza che ospitò i riti del Papa nuovo a Concilio ripreso, fino al grande rito di chiusura, l’8 dicembre 1965, quando furono annunciati sempre alla folla, sulla piazza, non solo i documenti conciliari, ma anche alcuni messaggi: agli artisti, agli intellettuali, ai responsabili della nazione e ai credenti di altre religioni.
Eppure, nonostante gli ostacoli, i pregiudizi, al di là della cortina di silenzio addensatasi intorno alla sua persona, Paolo VI oggi appare sulla scena mondiale come uno dei Pontefici più grandi e profetici della storia recente. Il consenso rimane alto anche tra quanti, dentro e fuori la Chiesa, avevano espresso giudizi spesso sommari e superficiali sul suo pontificato.
La decisione di Papa Francesco di elevarlo alla gloria degli altari il 14 ottobre 2018 annunziandolo al mondo intero, può costituire l’occasione di una nuova valutazione della sua opera e del suo pensiero. Sicuramente, lui più di tutti, riuscì tra consensi e dissensi a sostenere il peso del Concilio che papa Giovanni XXIII aprì l’11 ottobre del 1962, nel segno di un dialogo da ravvivare con tutti i cristiani e con ogni realtà del mondo contemporaneo. Indubbiamente l’avvenimento di maggior peso storico del secolo, ma soprattutto una luminosa “primavera” per la Chiesa, anzi per tutta la società.
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