Armando Cossutta, storico dirigente del Pci, è morto ieri sera all’ospedale San Camillo di Roma. Aveva 89 anni. Sposato con Emi dal 1946. Tre figli: Dario (manager e finanziere, amministratore delegato di Investitori Associati e, prima, di Sviluppo Italia), Anna e Maura.
Dopo la trasformazione del Partito comunista italiano, Cossutta fu tra i fondatori di Rifondazione Comunista e poi del Partito dei comunisti italiani. Nell’agosto scorso aveva perso la moglie Emilia, alla quale era legato da oltre 70 anni.
Fu una delle colonne del Pci negli anni in cui i rapporti con l’Urss erano forti. Iscritto al partito nel 1943, aveva partecipato alla Resistenza nelle brigate Garibaldi.
Nel dopoguerra divenne dirigente del partito, occupandosi prevalentemente dell’organizzazione. Entrò in Parlamento nel ’72 e vi restò fino al 2006.
Le foto: A destra in basso con Giancarlo Pajetta, Pietro Ingrao e Luigi Longo. Sopra a un corteo del Pci tra Enrico Berlinguer e Giorgio Amendola (sulla sinistra Longo con la coppola).
La camera ardente di Armando Cossutta “su richiesta della famiglia” sarà allestita giovedì 17 dicembre in Sala Nassirya al Senato e non mercoledì come annunciato in precedenza dal presidente di Palazzo Madama Pietro Grasso. A precisarlo è stato proprio Grasso alla ripresa dei lavori dell’Aula dopo la Conferenza dei Capigruppo.
LA BIOGRAFIA
Il suo profilo è tracciato efficacemente nel volume “Catalogo dei viventi” di Giorgio Dell’Arti, dal quale traiamo alcuni passi.
«Mio papà – raccontò in una intervista a Silvio Maranzana – è nato nel 1901 a Santa Croce e ha fatto l’operaio al silurificio di Fiume. Era un dannunziano fervente e con D’Annunzio partecipò alla presa di Fiume. Ben presto però entrò nel Partito comunista e all’inizio degli anni Venti assieme al fratello si trasferì a Milano per lavorare alla Marelli. Nel 1925 fondarono un’officina meccanica che giunse ad avere quaranta dipendenti, l’anno dopo nacqui io perché nel frattempo si era sposato con mia mamma che era di Cerignola».
Dalla Resistenza alla politica. «Il punto di osservazione iniziale è la Lombardia operaia, anzi ciò che a lungo se ne è considerato la “cittadella”: Sesto San Giovanni. Lì Cossutta iniziò la carriera politica, dopo aver militato nelle file della Resistenza ed aver subìto il carcere. Segretario della sezione comunista della “Stalingrado d’Italia”, vi incontra i massimi dirigenti del partito: da Togliatti, alla cui lezione si professerà fedele, a quel Luigi Longo, del quale appena può tesse l’elogio. Del primo, Togliatti, apprezza la razionale freddezza, la perseveranza con la quale privilegiò, nei fatti, “la strada della democrazia” rispetto a quella dell’“insurrezione”. Passa all’opposizione nel partito, diventando capo della corrente denominata, all’ingrosso, “filosovietica”. E ciò determinerà uno stop alla sua carriera, che aveva conosciuto un’ascesa continua fino a sfociare, nel 1966, nell’incarico di coordinatore dell’ufficio di segreteria e nella funzione di “sovrintendente all’amministrazione” del partito. Per farla breve, almeno fino al 1974, fu lui a procurare al Pci i finanziamenti che provenivano dall’Unione Sovietica: il cosiddetto “oro di Mosca”. Bersagliato per decenni dagli avversari politici, Cossutta non ha mai nascosto quel suo ruolo, rivendicandone anzi la legittimità in un universo bipolare, in cui ciascuna delle parti in lotta aveva i suoi finanziatori internazionali: la Dc gli Stati Uniti, il Pci l’Urss. Anche quando, sulla metà degli anni Settanta, i finanziamenti di provenienza moscovita si affievoliscono o cessano del tutto, egli continua a percepire contributi, magari modesti, di provenienza sovietica, stavolta a vantaggio di iniziative giornalistiche facenti capo alla sua “area” all’interno del partito o comunque predisposte verso Mosca. Moralmente ineccepibile in quanto persona, l’ex agitatore di Sesto San Giovanni è ormai una sorta di manager internazionale di partito. E questa funzione collima con la sua visione politica generale. Sotto Berlinguer, egli sarà favorevole al compromesso storico come intuizione di fondo, ma assai critico verso i giverni di solidarietà nazionale appoggiati dal Pci. Considererà “infelice” l’intervista con la quale, nell’estate del 1976, Berlinguer afferma di “sentirsi più al sicuro” sotto la protezione della Nato. Per non parlare della dichiarazione in cui lo stesso leader, alla fine dell’81, dichiarerà esaurita la “capacità propulsiva” della rivoluzione di Ottobre» (Nello Ajello) .
«Sull’Urss, la storia ha dato ragione a Enrico. Ma io non avevo torto quando vedevo nello strappo l’inizio di una “mutazione genetica”: non a caso, il Pci non è sopravvissuto. Cominciò una deriva che Berlinguer tentò invano di invertire, in modo brusco. Allora andò ai cancelli della Fiat e diede battaglia sulla scala mobile. Ma era troppo tardi» (intervista ad Aldo Cazzullo per il Corriere, 20016).
Lo strappo. «Il racconto dei suoi anni a Botteghe Oscure è soprattutto il racconto della notte più drammatica che Cossutta ha vissuto in questo palazzo: quella tra il 20 e il 21 agosto del 1968. Ore convulse in cui fu lui, il comunista ortodosso per antonomasia, l’uomo dello strappo da Berlinguer quando questi dichiarò esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre dopo i fatti di Polonia, a comunicare all’ambasciatore sovietico in Italia il dissenso del Pci sull’invasione di Praga» (Fabrizio D’Esposito – Il Riformista 2009).
«Uomo di Mosca… Io sono italiano. I russi lo sapevano bene. Agli inizi degli anni Settanta il nostro paese ha avuto il metano della Gazprom, pagandolo con i tubi dell’Italsider e le macchine della Nuovo Pignone. Un accordo splendido nell’interesse dell’Italia, grazie anche al Pci. Mi ricordo che Kossighin, allora capo del governo, mi diceva: “L’Italia ha la fortuna di avere grandi manager, Cefis, Valletta, il governatore della Banca d’Italia Guido Carli…”. (da un’intervista di Antonella Rampino).
• Fu profondamente contrario allo scioglimento del Pci: «Occhetto intende lasciare il Pci. La domanda non può essere “cosa faranno i comunisti”, perché è ovvio che essi vogliono rimanere in un partito comunista. La domanda vera è: quanti saranno quelli che, non sentendosi più comunisti, decideranno di seguire Occhetto in un altro partito non più comunista?» [1989]. Alla presentazione del simbolo del nascente Pds a ottyobre del 2010 (raffigurante una quercia), commentò caustico: «Sembra un garofano».
La rottura con Bertinotti. Nel 1991 fondò il Partito della Rifondazione Comunista (Prc) insieme a Sergio Garavini e ai compagni che si opponevano alla svolta della Bolognina. Cossutta fu nominato presidente del partito. Quando Fausto Berinotti lasciò polemicamente il Pds nel settembre 1993, fu proprio Cossutta a spingerlo dentro Rifondazione e a candidarlo come segretario nel gennaio 1994. Nacque così la diarchia Cossutta-Bertinotti che diresse il partito fino all’ottobre 1998. La spaccatura con Bertinotti si ebbe in occasione della presentazione della finanziaria 1999 del governo Prodi: Bertinotti, contrario alla politica economica del governo, voleva la rottura, Cossutta invece era per la trattativa. Nel comitato politico del partito, che si tenne tra il 2 e il 4 ottobre, si scontrarono le due posizioni e prevalse la linea bertinottiana. Il 5 ottobre Cossutta si dimise dalla presidenza del partito. Il 9 ottobre Rifondazione non votò la fiducia e Prodi cadde per un solo voto. Due giorni dopo Cossutta fondò, con Oliviero Diliberto e Marco Rizzo, il Partito dei Comunisti Italiani (Pdci), che decise di entrare nel neonato governoD’Alema.
I due comunismi. A proposito della scissione tra Cossutta e Bertinotti, Sergio Romano ha parlato di «due comunismi»: «Cossutta apparteneva alla scuola del Pcus (il partito comunista dell’Unione Sovietica) e del Pci: una combinazione di rigore ideologico, disciplina, realismo politico, pragmatismo. Bertinotti, invece, apparteneva a una tradizione socialista impregnata di attese massimaliste e velleità rivoluzionarie. Nell’albero genealogico di Cossutta vi erano Lenin e Togliatti, mentre in quello di Bertinotti vi erano i socialisti rivoluzionari (gli “esseri”) che Lenin aveva eliminato dalla scena russa nell’estate del 1918. Quando un gruppo di Rifondazione comunista lasciò il partito per costituire il Pdci, vi furono certamente all’origine della scissione la crisi del governo Prodi e le divergenze sulla strategia da adottare nella fase successiva. Ma è probabile che le diverse ascendenze ideologiche di Cossutta e Bertinotti abbiano avuto nella vicenda una parte importante» [Cds 9/7/2007].
«Ho lasciato Rifondazione quando era proiettata verso il 10 per cento, pronta a diventare il riferimento per un nuovo, vero partito della sinistra. Ma il voto contro Prodi bloccò la prospettiva di un processo politico che – grazie al binomio autonomia e unità – poteva portare il Prc oltre le secche dell’autosufficienza».
Nel giugno 2006, messo sotto accusa dal segretario Diliberto per aver proposto di cancellare la falce e il martello dal simbolo («Nel proporre la lista arcobaleno avevo un precedente glorioso: nel simbolo del Fronte, Togliatti non mise falce e martello, volle la stella d’Italia con Garibaldi»), si dimise anche dalla presidenza del Pdci: «Per la seconda volta si vede sfilare di mano un partito che aveva fondato, tradire da un successore che aveva scelto» (Aldo Cazzullo). Il 21 aprile 20078 si dimise anche dal partito.
• Nel 2008 si congedò dal Parlamento (dopo 10 legislature consecutive) con una letterina pubblicata a pagina 26 dell’Unità («Ora sarò liberamente comunista»).
• Quando Cossutta uscì da Rifondazione per fondare il Pdci e sostenere il governo D’Alema, Nichi Vendola (Prc) si scatenò contro di lui sulle colonne di Liberazione. «Per Nichi, l’ex compagno Cossutta era diventato “un cappellano militare”, “un esempio di cinismo incarnato nella liturgia levantina del mentire”, “l’ipocrisia eletta a scienza, a metodo, a progetto politico”, “una maschera che non fa ridere”. Nessuno come l’Armando sapeva “tradire se stesso, la propria storia, i propri compagni, senza neppure inarcare il sopracciglio, senza abbassare il volume della tromba”. Cossutta “si dice la verità da solo, si mente da solo, si celebra da solo, si seppellisce da solo”. La battuta finale del pacifista Nichi resta indimenticabile per l’assurdità velenosa: “Armando, voce del verbo armare”» (Giampaolo Pansa – Libero 26/1/2010).
Scrisse di lui Enzo Bettiza: «È stato un ossimorico rivoluzionario d’ordine, un custode inossidabile del comunismo reale, un compìto signore di sinistra antica al quale Indro Montanelli, ogniqualvolta lo incontrava, diceva con garbo complice e affettuoso: “Caro Armando, c’è qualcosa che ci unisce nel profondo. Siamo gli ultimi due conservatori sopravvissuti in un mondo di pazzi”».
Commenta per primo