di RAFFAELE CICCARELLI*/ L’occasione del settantesimo anniversario della tragedia di Superga, che vide perire quasi tutti i componenti del Grande Torino, più alcune grandi firme del giornalismo sportivo italiano, fa sì che ci siano in questo periodo tanti articoli e celebrazioni commemorative. Proprio il ricordo sempre vivo, rinverdito ogni anno, al di là della cifra tonda particolare del momento, induce a chiedersi il perché tutto questo e cosa ha trasportato nel mito questa squadra. Questo ci porta a considerare il momento storico in cui essa si è espressa: è l’immediato dopoguerra, l’Italia inizia la lenta opera di ricostruzione, il Paese è ridotto in macerie, la disperazione, la fame e la povertà attanagliano un popolo che ha bisogno di punti di riferimento positivi, ed il principale di essi fu trovato proprio nelle gesta di questa squadra. Costruita pezzo dopo pezzo dal suo presidente, Ferruccio Novo, a partire dal 1939, portando alla causa granata i migliori giocatori del momento, si formò una sorta di invincibile armata che dalla stagione 1942-43 iniziò a vincere, fermata solo dal blocco del campionato nel momento più cruento, e finale, della Seconda Guerra Mondiale.
Il secondo dopoguerra nel segno del Toro. Alla ripresa, subito dopo gli eventi bellici, il Toro riannoda il filo con la vittoria fino alla stagione 1948-49, al 4 maggio del 1949 quando, alle 17.02, l’aereo che li riportava in Italia dopo l’amichevole in Portogallo contro il Benfica per onorare il capitano di quella squadra che si ritirava, Francisco Ferreira, concluse tragicamente il suo volo. Quel modo di vincere, molte gare anche in maniera schiacciante, andando due volte oltre i cento gol realizzati in stagione, fece innamorare l’intera Nazione, anche perché in quei giocatori, pur campioni, non c’erano segni di divismo, per cui l’identificazione popolare era ancora più forte.
Un’altra epoca. Il calcio, in quel periodo storico, anche per calciatori di tale fama, non poteva essere il solo interesse, era quasi normalità, senza ostentazioni. Solo tre di loro erano motorizzati (Valentino Mazzola, Ezio Loik e Virgilio Maroso), qualcuno andava in moto (Mario Rigamonti), qualcun altro in bicicletta (Franco Ossola), la maggior parte aveva altre attività, come la gestione di bar o negozi di tessuti, rappresentanze di vernici (Loik), lo stesso Valentino Mazzola, uomo-simbolo di questa squadra, vendeva palloni da lui prodotti in negozi di articoli sportivi. Tutto questo modo d’essere, che rispecchiava quella che era la società di allora, un altro mondo rispetto ad oggi, completava l’identificazione con l’uomo comune.
La rivoluzione tecnico-tattica e il destino cinico e baro. Tecnicamente, poi, il Torino rappresentò anche una svolta nel modo di giocare. In quegli anni erano in voga due sistemi di gioco: il Metodo, imperante in Italia e che aveva portato anche due titoli mondiali con la Nazionale di Vittorio Pozzo, e il Sistema, che i granata adottarono sdoganandolo anche da noi dall’Inghilterra, facendone il marchio di fabbrica delle loro vittorie. Fino a quel 4 maggio del 1949, quando quell’incidente non solo cancellò quella squadra, con tutte le casualità del caso di chi sarebbe dovuto partire e non poté e di chi invece non doveva e si ritrovò su quel volo maledetto, ma fu anche il primo disastro aereo che coinvolse il calcio, in un elenco diventato tragicamente lungo, che ha visto coinvolto anche il Manchester United, con la fine dei Busby Babes, e in anni recenti la Nazionale dello Zambia e i brasiliani della Chapechoense. Quella grande fiammata, quel terribile schianto, hanno consegnato all’imperituro mito il Grande Torino, patrimonio eterno non solo dei tifosi granata, ma di tutti gli appassionati dello sport del calcio.
*Storico dello sport
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