La nostra Costituzione, che presto dovremo difendere dal più grave attacco mai sferrato ai suoi principi, è esemplare anche per la lingua con cui è scritta. L’art. 49 recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Nessun altro articolo, a mio avviso, è stato male interpretato e disatteso dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Alla sua redazione e approvazione ha contribuito in maniera determinante il socialista Lelio Basso, lo stesso che ha avuto il merito di redigere il secondo comma dell’art. 3: ”E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto, la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
I partiti politici sono una formazione sociale, che hanno un ruolo centrale nel nostro sistema costituzionale in forza dell’art. 2 della Costituzione. La mancata attuazione di previsioni costituzionali riguarda anche i sindacati secondo l’art. 39, che opportunamente precisava che “E’ condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.” Purtroppo in un Paese intriso di spirito causidico, invece di interpretare congiuntamente le disposizioni comuni a partiti e sindacati, si contrappose l’espressione “con metodo democratico” all’altra: “ordinamento interno a base democratica”. Il metodo democratico era soddisfatto dalla mera pluralità dei partiti, concorrenti in libere elezioni democratiche, per di più garantite da una legge elettorale proporzionale, che consentiva a tutti di essere rappresentati.
Nella mancata attuazione dell’articolo 49 della Costituzione i partiti di sinistra hanno una responsabilità, innanzi a tutto per non averla individuata come prioritaria, benché non siano mai mancati disegni di legge al riguardo, ripresentati ad ogni inizio di legislatura da deputati come Valdo Spini. Sotto sotto, vi era il timore che, attraverso una regolamentazione dei partiti vi fosse un loro controllo anche politico sulle loro finalità. Fin dall’inizio l’articolo 49 fu oggetto di critiche come il fondamento della “Partitocrazia” intesa come “ Predominio dei partiti, in quanto organizzazioni autonome e monopolistiche, che tendono a sostituirsi al Parlamento nella determinazione della vita politica dello stato e che estendono la loro influenza in ogni campo della vita di una collettività.”
Il termine fu reso popolare da Giuseppe Maranini che ne fece uso fino dal 1949, ma per i partiti non suonò alcun campanello di allarme. L’errore di Maranini e dei censori della partitocrazia è stato quello di confondere “Die real-existierenden Parteien”, i partiti realmente esistenti, con quelli prefigurati dall’art. 49: non è il primo né unico caso di problemi provocati per noi della sinistra socialista e comunista da un “real-existierende” a un nostro ideal-immaginario modello (societario). L’art. 49 andava invece attuato con una legge organica proprio per evitare la loro degenerazione, tipica di ogni associazione retta da un’oligarchia, che si rinnova per cooptazione e che da vita ad una nomenklatura.
Un momento di svolta importante nella vita dei partiti politici è stato determinato dall’inizio del finanziamento pubblico, introdotto dalla legge del 2 maggio 1974 n. 195 approvata, miracoli del bicameralismo paritario, in soli 16 giorni. Un tentativo di calmare l’opinione pubblica per scandali di finanziamento illecito, cui, peraltro, il finanziamento pubblico non pose fine. La reazione fu una richiesta referendaria dei liberali dell’autunno 1974, fallita per il mancato raggiungimento delle 500.000 firme. Nel giugno 1978 si celebra il referendum chiesto dai radicali, che non raggiunse la maggioranza dei sì, fermi al 43,6%, probabilmente per l’abbinamento al referendum sulla legge Reale, ma un segno di frattura con l’opinione pubblica era chiara: i partiti che avevano invitato a votare NO, teoricamente rappresentavano il 97% dell’elettorato. Lo scampato pericolo indusse i partiti a raddoppiare il contributo pubblico con la legge n. 659 del 18 novembre 1981. La consapevolezza di cambiare l’orientamento era presente nella classe politica, non ancora ridotta a casta e la prima delle Commissioni Bicamerali, quella presieduta dall’on. Aldo Bozzi (1983-1985), aveva proposto di aggiungere all’art. 49 un secondo comma dedicato proprio al finanziamento pubblico che avrebbe così recitato: “La legge disciplina il finanziamento dei partiti, con riguardo alle loro organizzazioni centrali e periferiche, e prevede le forme e le procedure atte ad assicurare la trasparenza e il pubblico controllo del loro stato patrimoniale e delle loro fonti di finanziamento“.
Non se ne è fatto nulla. Continuano gli scandali e l’intreccio sempre più stretto di partiti al governo con le imprese pubbliche con posizioni assicurate anche ad esponenti dell’opposizione, come negli affidamenti di lavori pubblici un quota alle cooperative è garantita. Il 17 febbraio 1992 scoppia Tangentopoli- Mani Pulite un terremoto politico, i cui effetti non sono stati ancora digeriti dal nostro Paese in attesa della pietra tombale della revisione costituzionale. In tale contesto il referendum dei radicali dell’aprile 1993 avrebbe avuto un esito scontato: il 90,3% dei voti espressi è a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti. Per nulla impressionati, i partiti attraverso i loro parlamentari rispondono con la legge n. 515 del 10 dicembre 1993, che aggiorna i “contributi alle spese elettorali”, come se fossero una cosa diversa dal finanziamento ai partiti politici. Un fondo destinato ad aumentare perché il fondo è calcolato, da ultimo, con € 5 per ogni elettore iscritto. Una vera e propria truffa in quanto i voti effettivamente ricevuti non giocano alcun ruolo, se non per determinare la percentuale della torta, e nessuna documentazione fiscalmente regolare deve essere allegata. Il rimborso spetta per elezioni regionali, nazionali ed europee, sia pure collegata a parametri differenti per le elezioni politiche nazionali ad una percentuale dei voti validi, l’ultima un mero 1%, mentre per le elezioni regionali ed europee il requisito era quello di avere almeno un eletto. Questa era una norma pensata per dare “rimborsi” anche a chi non avesse raggiunto la percentuale prevista per le elezioni politiche. In effetti all’epoca le leggi elettorali regionali ed europee erano assolutamente proporzionali: il parlamentare europeo poteva scattare con meno dell’1%. Con le nuove leggi elettorali viene, invece, posta una soglia d’accesso in genere il 4%, progressivamente in tutte le regioni e per le europee con la legge n. 10 del 20 febbraio 2009 in via definitiva per le elezioni 2009 e 2014, con l’effetto paradossale che le liste che non raggiungono la soglia, pur avendo partecipato alle elezioni e sostenuto spese, non ricevono alcun rimborso, anzi paradossalmente gli elettori che hanno votato per loro contribuiscono con 5 euro a testa a finanziare i partiti avversari.
I finanziamenti sono determinati dagli elettori iscritti e non dai votanti, che sono in costante diminuzione (il record si è raggiunto nelle elezioni regionali dell’Emilia Romagna del 2014 con meno del 38%). Quando si parla di partiti non si distingue tra partiti dell’establishment, cioè presenti nelle istituzioni, e nuove formazioni. Con effetti paradossali, perché grazie ai meccanismi premiali per le coalizioni vincenti possono eleggere un consigliere, quindi essere rimborsate, formazioni politiche con percentuali infime, anche inferiori al 1% ed essere escluse dalla rappresentanza e dal rimborso liste con percentuali vicine al 5%. La questione di questa disparità di trattamento (l’Italia è l’unico caso in Europa in cui soglia di accesso alla rappresentanza e al rimborso coincidano) è stata sollevata davanti alla giustizia italiana finora senza successo.
Altra discriminazione tra partiti esistenti e nuovi soggetti è determinata dalla necessità di raccogliere firme di elettori per la presentazione di liste. Nelle regioni c’è la massima varietà: si va dalla presentazione da parte di un solo consigliere uscente (Sardegna e Puglia) al patrocinio di gruppi consiliari corrispondenti a liste presentatesi alle elezioni precedenti ovvero formatesi in coincidenza della verifica dei presupposti per lo scioglimento anticipato (Lombardia). Per dare un’idea delle discriminazioni per presentarsi alle elezioni della Regione Lombardia, meno di 10 milioni di abitanti, occorrono 10 volte di più firme, di quelle necessarie per candidarsi nel Land Nordrhein- Westfalen, con poco meno di 20 milioni di abitanti, dove ne bastano 1.000 e solo per chi non sia un partito registrato. La discrezionalità del legislatore che ha prodotto leggi elettorali, come il Porcellum del dicembre 2005, dichiarato incostituzionale soltanto nel gennaio 2014, è un tabù per la nostra giurisprudenza, anche grazie ad un’interpretazione estensiva dell’autodichia, prevista dall’art. 66 Cost., delle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, estesa persino alle operazioni elettorali preparatorie, malgrado le previsioni dell’art. 44, c. 2 lett. d) della legge n. 69/2009, che finalmente assoggettava al controllo giurisdizionale le operazioni elettorali preparatorie per la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica.
Allo stato un Parlamento eletto con una legge incostituzionale è autorizzato a deformare la Costituzione e a tenere in non cale la sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale approvando in violazione dell’art. 72 Cost. una legge, come la n. 52 del 6 maggio 2015, il cosiddetto Italikum, mentre sarebbe stato meglio un Germanicum o un Gallicum. Una visita all’estero è necessaria per affrontare la riforma dei Partiti, per esempio come limite alla discrezionalità del legislatore in materia elettorale, si potrebbero recepire i principi della sentenza 23 aprile 1986 nella causa 294/83, Parti écologiste «Les Verts» contro Parlamento Europeo della Corte di Giustizia CE. Da noi l’Europa, ridotta a UE, è sempre invocata come limite alle nostre decisioni, ma provate ad introdurre disposizioni come l’articolo 10, paragrafo 4, del Trattato sull’Unione europea e dall’articolo 224 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e forme di finanziamento come quelle previste dal regolamento (CE) n. 2004/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003.
Queste mie riflessioni potrebbero sembrare eccentriche, ma non si può, a mio avviso, affrontare l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione senza tener conto delle leggi elettorali e della tutela giudiziaria degli iscritti ai partiti. I soggetti da tutelare non sono i partiti, ma i cittadini che hanno il diritto di associarsi. L’invasione ed occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici non si combatte stabilendo le incompatibilità generalizzate della proposta in discussione, di cui approvo, invece, in pieno gli artt. 1 e 2. Bisogna distinguere tra cariche esecutive e rappresentative nei Partiti e tra rappresentanza e governo nelle istituzioni e farei maggiore attenzione alle imprese pubbliche o che gestiscono servizi pubblici in regime di concessione. Per evitare incrostazioni a mio avviso è meglio porre in generale limiti temporali di esercizio di funzioni pubbliche anche elettive e garantire l’assoluta trasparenza in ogni nomina o elezione a funzioni pubbliche o fatta da istituzioni od organi pubblici, comprese le nomine in Corte nel CSM, per le quali occorre che ci siano almeno candidature prima della libera scelta da parte del Parlamento. Ci sono paesi democratici e in cui la democrazia non è in pericolo dove il leader del Partito è anche il candidato a premier o cancelliere, penso alla Gran Bretagna, alla Germania o alla Spagna.
In Italia il pericolo non è quello della coincidenza tra Primo Ministro e segretario di un partito (il PD tanto per fare un esempio a caso), ma una legge che premia una minoranza, che consente ad un segretario di partito di nominare, anche a dispetto degli elettori una quota dei parlamentari, che un partito non rappresentativo della maggioranza degli elettori controlli il Parlamento e quindi la stessa elezione degli organi di garanzia. Il pericolo non è il cumulo degli incarichi di partito e di governo, ma che il governo controlli il procedimento legislativo, anche contro il parlamento. Il pericolo è la scomparsa della divisione dei poteri, con un peso preponderante assegnato all’esecutivo e premi di maggioranza assegnati in base al consenso dei candidati al vertice esecutivo, come il Sindaco o il Presidente di Regione, invece che delle liste, che ne beneficiano. I pericoli non dipendono dalla coincidenza tra incarico di partito e di governo, ma dalla violazione dell’art. 54 della Costituzione di quelli che scelgono la disciplina di partito, invece di rispettare l’art. 67 della Costituzione. I pericoli per la democrazia sono nel comportamento di quei partiti che hanno scelto le elezioni di secondo grado, come nelle Province e Città Metropolitane, per sapere chi governerà la sera prima delle elezioni e che per tranquillità loro sono arrivati a presentare liste di consiglieri o provinciali metropolitani pari al numero dei posti da ricoprire. In queste condizioni non è un rimedio che nessuno di loro sia iscritto ad un partito o che si dimetta un minuto dopo. Il senso è chiaro: dare ai poteri economici e finanziari il controllo dei partiti attraverso i finanziamenti e di far prosperare le Fondazioni legate a questo o a quell’altro esponente politico.
*Felice Besostri è garante della Fondazione Basso, avvocato, responsabile Gruppo Giuridico Avvocati del Coordinamento Democrazia Costituzionale, membro del Comitato per il NO al referendum costituzionale; è stato inoltre capogruppo DS nella Commissione Affari Costituzionali del Senato nella XIII legislatura, e docente di Diritto Pubblico Comparato, Scienze Politiche, Universitò degli Studi di Milano (anni accademici 2004/2005 e 2009/2010).
*Testo ricavato dall’intervento al convegno della Fondazione Basso sul tema “Per una legge sui partiti – Progetto per l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione” .
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