di DOMENICO MACERI* – «Il presidente Trump è un successo strepitoso. Le sue conferenze stampa sul coronavirus hanno raggiunto uno share di 8,5 milioni di telespettatori»: questo uno dei recenti tweet di Donald Trump mentre citava un articolo del New York Times che si domandava se le recenti conferenze stampa quotidiane del presidente meritavano di essere trasmesse in diretta dalla televisione. I media americani si stanno facendo la stessa domanda, poiché, come in tutto quello che fa, Trump non perde nessuna opportunità per farsi campagna politica e promuovere la sua agenda anche nell’attuale crisi di pandemia.
Le conferenze stampa avvengono alle 5:30 di sera, ora di Washington. All’inizio sono state considerate notizie importanti e quasi tutte le reti televisive le hanno trasmesse. Poi, i media si sono resi conto che, nonostante alcune informazioni importanti presentate da alcuni esperti che collaborano nella task force presidenziale sul coronavirus, Trump era divenuto il regista e protagonista di questi eventi. Il 45esimo presidente ha sfruttato le occasioni per cercare di mettessi in luce, dando allo stesso tempo informazioni poco veritiere e in non pochi casi gli esperti lo hanno dovuto correggere. Le correzioni devono essere fatte però in modo molto diplomatico perché, come si sa, Trump è sensibilissimo a qualunque riferimento da cui dovesse risultare che lui non stia facendo un ottimo lavoro.
Le conferenze stampa di Trump sul coronavirus cominciano con la sua entrata in scena seguito da una dozzina di membri della task force. Il presidente inizia passando in rassegna i punti fondamentali, leggendo dal teleprompter, stentando a comunicare le parole scritte, dando l’impressione di leggere con grande difficoltà. Di tanto in tanto si prende una breve pausa per commentare con parole proprie che riflettono di più il suo stile preferito, spesso ripetendo, mostrando i limiti del suo vocabolario.
Trump chiede poi ad alcuni degli esperti di offrire i loro contributi, dove si ottiene in realtà qualche informazione credibile specialmente quando il dottor Anthony Fauci, direttore del Center for Disease Control, fa i suoi interventi. Alla fine si passa alle domande dei giornalisti. Spesso queste situazioni diventano scontrose poiché il 45esimo presidente non gradisce domande che possano lasciar minimamente intendere alcune delle sue falsità, che causano confusione in coloro che lo ascoltano. Questi scontri sono in parte orchestrati da Trump per continuare la sua campagna politica, attaccando alcuni dei giornalisti come Peter Alexander (Nbc), Jim Acosta (Cnn) e Yamiche Alcindor (Pbs). Gli scontri sono ovviamente “vinti” da Trump che controlla, interrompe, accusa, mettendo i giornalisti al tappeto nella sua mente e soprattutto in quella dei suoi sostenitori. I telespettatori obiettivi rintuiscono che Trump sta sfruttando qualunque occasione, specialmente televisiva, per segnare gol politici. Le sue “vittorie” contro i media che i suoi sostenitori odiano lo ingigantiscono nella loro mente.
In effetti, Trump disprezza i media e vorrebbe, se possibile, seguire l’esempio di Viktor Orban in Ungheria, il quale, sfruttando l’emergenza della pandemia, si è fatto assegnare i pieni poteri, eliminando tutte le forme di informazione indipendente.
Considerando il fatto che Trump ha strutturato e controllato le conferenze stampa sul coronavirus come opportunità di campagna politica, alcune reti televisive hanno cominciato a non offrirgli più la copertura totale. In non pochi casi la Cnn, Msnbc, Cbs hanno limitato recentemente le dirette avendo capito che rischiano di essere usate per coprire la povertà di informazione e farsi diffusori di asserzioni fuorvianti e di campagna propagandistica. Alcuni altri gruppi come il Washington Post, il New York Times e la Cnbc hanno ridotto o non hanno inviato corrispondenti alle sessioni, preoccupandosi del rischio di contagio dei loro dipendenti, anche perché Trump e i membri della sua task force non rispettano le distanze sociali che raccomandano al resto del Paese per scongiurare la contaminazione del covid-19.
Il dilemma però rimane perché quando Trump parla bisogna ascoltare, anche se non gli si deve porgere il microfono costantemente. Il ruolo della stampa consiste però nel fare da “cane da guardia” di fronte ai governi e nel separare le notizie dalla propaganda politica per presentarle ai lettori/telespettatori. Offrire i microfoni a Trump per fare e dire quello che vuole è segno di irresponsabilità giornalistica. Lo abbiamo visto nella campagna elettorale del 2016 nella quale le televisioni via cavo coprivano quasi tutti i comizi e i rally di Trump nella sua interezza perché “divertivano” e facevano share, aiutando il candidato all’elezione ma allo stesso tempo creando profitti alle reti televisive. Hillary Clinton e Bernie Sanders furono invece in grande misura ignorati e ovviamente danneggiati.
Le reti televisive hanno capito che Trump sfrutta le conferenze stampa sulla pandemia per i suoi scopi politici e hanno ridotto la loro copertura. Paradossalmente però in alcune di queste più recenti sessioni Trump sembra avere abbandonato la sua visione ottimistica sul diffondersi del coronavirus, ammettendo che si tratta di una cosa molto seria. Il 45esimo presidente ha insistito che bisogna fare sacrifici e continuare il “lockdown”, la chiusura, per almeno altri trenta giorni, mantenendo le scuole chiuse e limitando i contatti sociali.
Se tutto questo si farà, si potranno limitare le morti a un massimo di 200mila. In caso contrario si tratterà di una situazione più tragica con un massimo di morti fino a 2 milioni. Si tratta di conclusioni sobrie che gli analisti hanno riconosciuto come affermazioni degne di un presidente. Trump però non dimentica la campagna politica e il suo show. In una delle più recenti conferenze stampa ha risposto a un giornalista facendo notare che “lui è al primo posto su Facebook” (falso: Trump 29 milioni di followers, Obama 53 milioni). Milioni di morti possibili e il presidente continua a pensare alla pubblicità personale? Forse non ha capito niente dopotutto, come ci conferma la sua decisione di proibire la riapertura delle iscrizioni a Obamacare per coloro che non hanno assicurazione medica.
*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com).
Commenta per primo