di DOMENICO MACERI* – “Quando iniziano i saccheggi iniziamo a sparare”. Questa la reazione di Donald Trump per sintetizzare la linea dura da adottare, a suo modo di vedere, contro alcune più esasperate manifestazioni di protesta per la morte dell’afroamericano George Floyd, schiacciato a terra da un poliziotto fino a quando ha smesso di respirare. Trump riprendeva un’espressione con sfumature razziste, forse senza rendersene conto, riflettendo la sua ignoranza della storia americana e la discriminazione razziale. Glielo ha fatto notare la giornalista afro-americana Harris Faulkner della Fox News a cui il 45esimo presidente ha recentemente concesso un’intervista.
La Faulkner è grande sostenitrice di Trump, come del resto lo è la rete di Rupert Murdoch. Ciononostante la giornalista afro-americana ha pressato il presidente USA sull’origine violenta dell’espressione e della sua carica razzista. Rispondendo alla domanda, Trump ha detto che la frase è di moda e che lui l’aveva sentita spesso. Nel dialogo, la Faulkner ha fatto presente che l’espressione fu usata per la prima volta da Walter Headley, capo della polizia di Miami, in una conferenza stampa del 1967. Headley e le forze dell’ordine stavano cercando di controllare risse e attività criminali nei quartieri afro-americani di Miami. Headley aggiunse che poco gli importava dell’accusa di “brutalità poliziesca”.
Trump ha cercato di giustificarsi continuando a dire che lui l’aveva sentita dire da Frank Rizzo, ex sindaco di Filadelfia. Rizzo era stato capo della polizia di Filadelfia nello Stato della Pennsylvania e poi anche sindaco, ma è noto per il suo razzismo, come la storia ci ricorda, poiché le sue misure estremiste terrorizzarono la comunità afro-americana della città. Trump, citando Rizzo, non si rende conto che l’uso dell’espressione lo avvicina a un individuo il cui razzismo appare lampante e lo fa parlando con una giornalista conservatrice ma di colore. Trump, di fatti, loda Rizzo dicendo che era “un sindaco molto forte”, secondo la sua opinione. Probabilmente ignora anche che la statua di Rizzo è stata recentemente smantellata dall’attuale sindaco Jim Kenney, il quale l’ha descritta come “un monumento deplorevole al razzismo, l’intolleranza, e la brutalità della polizia verso la comunità afro-americana e quella LBGTQ”.
La cecità di Trump sul razzismo viene dimostrata anche dalla ripresa dei rally con cui cercherà di colmare il divario che – secondo i sondaggo – lo separa dal suo avversario, Joe Biden, alle elezioni di novembre. Il prossimo comizio del 45esimo presidente si terrà a Tulsa, Oklahoma, uno degli Stati più “red” (conservatori) ma anche significativo nella storia razziale. Nel 1921 trecento afro-americani a Tulsa furono massacrati in un quartiere prospero della città. Si trattava di una zona dominata da professionisti e benestanti afro-americani, malvisti dalla maggioranza bianca della città. Il luogo scelto per il comizio, carico di tensioni razziali, diviene ancora più problematico anche per la scelta della data, originalmente fissata per il 19 giugno. In questo giorno, June Nineteenth, combinato a Juneteenth, si celebra la fine della schiavitù, annunciata nel mese di aprile, ma estesa a tutti i territori il 19 giugno del 1865. Trump, avendo riconosciuto di avere fatto un passo falso, ha indietreggiato, rimandando il rally al giorno dopo. Una piccola concessione atipica ma sempre poco apprezzata considerando tutto il suo operato e ideologia sul razzismo.
Trump ha anche fatto un altro piccolo passo positivo con il suo decreto sulla riforma della polizia annunciando la limitazione del “chokehold”, l’uso dello strangolamento per immobilizzare un individuo sospettato di avere commesso un reato. Inoltre il governo fornirebbe contributi a quei dipartimenti di polizia che seguiranno questa nuova direttiva. Non un obbligo dunque, solo un consiglio. In linea generale, però, l’attuale inquilino della Casa Bianca continua a sostenere che il problema della polizia consiste nella presenza di alcune mele marce e non esiste nessun bisogno di cambiamenti strutturali.
L’estremismo di Trump sulle questioni emerse nelle ultime settimane contro le manifestazioni anti-razziste, però, rimane e ce lo confermano anche le prese di posizione dei suoi avversari politici, che lo hanno criticato aspramente. Ma anche la leadership repubblicana ha preso le distanze da Trump per alcune sue azioni, che continuano a riflettere la sua linea politica vicinissima ai suprematisti bianchi. Le manifestazioni causate dalla morte di George Floyd hanno riacceso la disuguaglianza politico-sociale con le richieste di cambiamenti strutturali. Si richiede anche l’eliminazione di simboli che continuano a ferire gli afro-americani ma anche tutti coloro che hanno partecipato alle manifestazioni poiché continuano a legittimare le ingiustizie storiche.
L’eliminazione di statue che commemorano militari confederati è riemersa con le manifestazioni. Trump si è dichiarato contrario. Si oppone anche al cambiamento di nomi di una decina di basi che ricordano militari confederati dicendo che “Queste monumentali e potentissime basi fanno parte del patrimonio americano e una lunga storia di vincere, vittoria e libertà”. Difficile capire a che cosa si riferisce il 45esimo presidente. Queste basi militari, i cui nomi il ministero della Difesa voleva cambiare, riflettono individui che hanno perso la Guerra Civile poiché in caso contrario il Paese si sarebbe diviso in due. Riflettono infatti la schiavitù che ovviamente ferisce le sensibilità di tutti i soldati afro-americani che vi mettono piede ma anche bianchi che vi entrano e continuano a legittimare ingiustizie nel Sud del Paese. Si tratta però di ingiustizie che esistono anche negli Stati del Nord poiché la discriminazione e le uccisioni di afro-americani da parte dei poliziotti avvengono troppo frequentemente in quasi tutti gli Stati.
Nel caso delle basi Trump si trova però quasi isolato, abbandonato anche dal suo partito. Una commissione al Senato, dominata dai repubblicani, ha infatti votato per eliminare questi nomi confederati. La proposta, originariamente introdotta dalla senatrice democratica Elizabeth Warren, sarà inclusa in un disegno di legge importantissimo per autorizzare il bilancio della difesa che riceve appoggio bipartisan.
Gli americani si sono anche loro allontanati da Trump e dalla sua linea dura verso i manifestanti. Il 74 per cento supporta i manifestanti. Inoltre anche il 65 per cento di quelli che si considerano conservatori crede che la frustrazione dei manifestanti sia almeno in parte giustificata.
Gli atteggiamenti di Trump sulla questione della discriminazione razziale rientrano in grande misura nello slogan di “Make America Great Again” (Rifacciamo grande l’America), una visione che riflette un passato in cui la discriminazione era esplicita e alla luce del sole. Gli Usa sono però cambiati, ma Trump rimane ancorato al passato mentre la maggioranza degli americani lo ha lasciato indietro. Le elezioni di novembre si profilano in questo senso foriere di rilevanti conseguenze. Con l’elezione di Barack Obama nel 2008 e poi la rielezione del 2012 l’America ha fatto un passo avanti eleggendo un afro-americano alla carica più importante. Paradossalmente questo ha aumentato la paura di un segmento di americani che si sentono insicuri per la globalizzazione ma anche per il fatto che il potere dei bianchi sta scomparendo. Nel 2016 una minoranza di americani ha eletto Trump mediante il meccanismo dell’Electoral College che non riflette il voto popolare. Il 2020 correggerà l’errore del 2016?
*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com).
Commenta per primo