di SERGIO SIMEONE*- Comprendiamo il dramma di Matteo Salvini. Dopo aver fatto sapere urbi et orbi durante tutta la
campagna elettorale negli Stati Uiti che lui era per Trump senza se e senza ma, con
tanto di mascherina “trumpiana” esibita in tutte le sue apparizioni televisive, ha visto prima il suo
idolo sconfitto, e successivamente esecrato da tutto il mondo, compreso il suo vicepresidente Pence ed il
capogruppo dei repubblicani al Senato, per aver organizzato un quasi golpe per impedire che Joe
Biden venisse proclamato Presidente degli Stati Uniti.
Come uscire dalla imbarazzante situazione di aver fatto il tifo per un soggetto che ha messo in
pericolo la più antica e solida democrazia del mondo? Due erano le possibilità, entrambe disastrose
per la sua reputazione politica: continuare a sostenere Trump anche nella sua ultima scelleratissima
iniziativa, apparendo agli occhi di tutti un soggetto per niente idoneo a guidare un Paese
democratico come l’Italia; oppure dichiarare di avere sbagliato scegliendo di sostenere Trump, rivelando
così di non avere alcuna capacità di giudizio e, conseguentemente, di non essere idoneo a guidare
un importante Paese come l’Italia.
Allora ha optato per una terza soluzione degna di un epigono di Aristotele (chi l’avrebbe
detto che Salvini sarebbe divenuto un aristotelico a sua insaputa?). Si può condannare l’assalto al
Campidoglio dei trumpiani e rimanere al tempo stesso fedeli a Trump, perché quell’assalto
rappresenta un accidente e non la sostanza del trumpismo. In altre parole i drammatici fatti del 4
gennaio non sono la logica conclusione della politica condotta dall’ex Presidente, ma un
imprevedibile ed imprevisto episodio di follia di cui si sono resi protagonisti in maniera del tutto
autonoma alcuni scalmanati.
Niente di più falso. Innanzitutto sul piano fattuale. Trump ha riscaldato gli animi dei suoi ancora
prima che si svolgessero le elezioni, preannunciando che queste sarebbero state viziate da brogli, ed
ha continuato, senza darne le prove, a parlare di elezioni illegittime nelle settimane successive,
incurante del fatto che tutti i tribunali a cui ha fatto ricorso gli hanno dato torto, compresa quella
Corte suprema, che lui aveva fatto diventare a maggioranza repubblicana. Ha convocato i suoi
fanatici seguaci a Washington proprio il giorno 4 in un luogo vicino al Campidoglio e li ha aizzati
dicendo che non dovevano accettare la nomina del nuovo Presidente. Ed anche quando è stato
costretto ad invitare i suoi seguaci a ritirarsi dal Campidoglio ha tenuto a precisare che lui era del
tutto solidale con loro.
Ma, a parte il ruolo svolto nel promuovere la insurrezione del 4 gennaio contro le istituzioni democratiche,
tutti e quattro gli anni di presidenza di Trump si sono svolti all’insegna dell’eversione, sia a livello
internazionale che a livello nazionale. A livello internazionale ritira gli USA dall’accordo di Parigi
sul clima, cerca di rompere l’Unione europea, cerca di mettere in crisi l’economia europea con una
guerra commerciale, mette in discussione la NATO. Sul piano interno attacca la stampa, insulta gli
avversari politici, cerca di sottomettere la magistratura, sostiene (ed è ricambiato ) suprematisti
bianchi e razzisti. Ed allora, il quasi golpe del 4 gennaio è un accidente o è l’espressione della
sostanza del trumpismo?
*Sergio Simeone, docente di Storia e Filosofia, è stato anche dirigente dela sindacato Scuola della Cgil
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