di DOMENICO MCERI* – I rapporti fra presidente e vicepresidente sono tipicamente transazionali. Il vincitore delle primarie sceglie il suo vice pensando ai contributi elettorali che il numero due potrà produrre. Spesso si tratta di questioni geografiche ma a volte la scelta verte su tematiche ideologiche. Di tanto in tanto, però, una volta conquistata la Casa Bianca, i due diventano buoni amici come avvenne nel caso di Barack Obama e Joe Biden. Va ricordato, che quando Beau, figlio di Biden, soffriva di cancro al cervello, Obama offrì di assistere il suo vice con le spese mediche per evitargli di dover vendere la casa per pagare le cure.
I rapporti fra Donald Trump e il suo vice Mike Pence non sono finiti invece in modo piacevole. Nei suoi tentativi di mantenere il suo potere politico il 45esimo presidente le provò tutte, mettendo pressione su Pence, specialmente negli ultimi giorni prima del 6 gennaio e gli assalti al Campidoglio. Trump voleva che Pence non si limitasse al suo ruolo cerimoniale di vicepresidente alla certificazione dell’elezione di Joe Biden. Insistette falsamente che Pence avesse il potere di rifiutare i voti elettorali di alcuni Stati e ribaltare l’esito elettorale del 2020. La mattina degli assalti al Campidoglio Trump telefonò a Pence e in una conversazione molto accesa che non cambiò la mente del suo numero 2, lo insultò, dicendogli che sarebbe ricordato come “un fifone”. Seguì poi un tweet in cui l’allora presidente alla Casa Bianca diceva che Pence non aveva avuto il coraggio di fare il suo dovere, scatenando le grida degli assalitori di “impiccare Mike Pence”.
Nel parapiglia degli assalti al Campidoglio Pence riuscì a salvare la propria vita e quella della sua famiglia grazie al lavoro prezioso delle sue guardie del corpo, completando anche il suo lavoro di certificare l’elezione di Biden. Nonostante l’azione abominevole di Trump, alcuni giorni dopo, i due si riunirono e fecero pace. Pence non ruppe completamente con Trump, limitandosi ad offrire solo alcune osservazioni severe ma molto prudenti. Adesso il Dipartimento di Giustizia americana gli sta offrendo un’opportunità di rompere completamente con il suo ex capo. Il procuratore speciale Jack Smith, che sta conducendo indagini su Trump, ha inviato a Pence un mandato di comparizione sugli eventi del 6 gennaio 2021. Pence era stato anche invitato ad offrire testimonianze alla Commissione Parlamentare sugli eventi del 6 gennaio ma si era rifiutato. Il mandato di comparizione di Smith, emesso dopo sei mesi di negoziati con Pence, è difficile da rifiutare. Trump interverrà cercando di ostacolare le testimonianze, appellandosi al privilegio esecutivo fra lui e Pence, ma le sue possibilità di successo sono minime. Le testimonianze potrebbero beneficiare Pence politicamente, offrendogli una certa copertura dalla possibile rabbia della base del Partito Repubblicano, sostenendo che non aveva scelta e ha compiuto il suo dovere a malincuore. Pence potrebbe cercare di ritardare ma in questo caso si tratta di una procedura potenzialmente criminale diretta verso il suo ex capo. Le sue testimonianze sarebbero utilissime per determinare lo stato mentale di Trump, mettendo a nudo soprattutto se lui sapeva di avere perso l’elezione e se le sue azioni rappresentano reati.
Trump ha già dichiarato la sua candidatura alle presidenziali del 2024 e si crede che anche Pence farà altrettanto. I due, quindi, da collaboratori, diverrebbero rivali. Per poter concentrarsi sulla sua campagna elettorale Pence deve però rompere completamente con il suo ex capo. Non lo vuole fare stile Liz Cheney, ex parlamentare del Wyoming, che ha affrontato frontalmente Trump, ricevendo tutta l’ira dell’ex presidente. La Cheney ha pagato il suo coraggio con la sconfitta alle primarie del suo Stato. Trump ha offerto il suo vitale supporto a Harriet Hageman, la quale ha sconfitto Cheney con ampi margini. Pence vuole invece seguire l’esempio di Brian Kemp in Georgia il quale, nonostante i freddissimi rapporti con Trump, non ha alienato la potente base dell’ex presidente ed è stato rieletto governatore.
Pence ha anche il grattacapo dei documenti riservati trovati nella sua residenza come è accaduto nel caso di Biden. Il più pericoloso però è quello di Trump che invece di cooperare e consegnare le centinaia di documenti riservati al governo ha invece ostruito le procedure. Smith lo sta indagando anche sulla questione dei documenti e il possibile reato di ostruzione e persino di spionaggio. L’atteggiamento casuale di Trump con i documenti riservati che potrebbero essere andati a finire nelle mani di Paesi nemici lo mette in serio pericolo legale.
Testimoniare contro Trump non sarebbe una passeggiata per Pence ma gli offre una buona opportunità di mettergli lo sgambetto, rompendo completamente con il suo ex capo. Se poi Smith dovesse avere successo a incriminare il 45esimo presidente rendendolo ineleggibile, Pence avrebbe la strada più aperta poiché non dovrebbe affrontare il suo ex capo per la nomination del Partito Repubblicano. Un strada in salita ma un po’ meno con la possibile assenza di Trump come candidato, non solo per lui ma anche per gli altri tre o quattro probabili sfidanti come Mike Pompeo, Nikki Haley e Ron DeSantis. Questi tre e qualche altro probabile candidato dovrebbero dunque essere grati a Pence per le sue riluttanti testimonianze contro Trump.
*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.
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