Alberto Stasi è colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio” dell’omicidio della fidanzata Chiara Poggi. Lo mette nero su bianco la Cassazione nelle 115 pagine di motivazione nelle quali spiega il perché, il 12 dicembre 2015, è stata o condannato a 16 anni di carcere. In particolare, la Quinta sezione penale scrive che “ciascun indizio risulta integrarsi perfettamente con gli altri come tessere di un mosaico che hanno contribuito a creare un quadro d’insieme convergente verso la colpevolezza di Alberto Stasi, oltre ogni ragionevole dubbio”.
La Suprema corte contesta anche l’andamento delle indagini sul delitto avvenuto a Garlasco il 13 agosto 2007 nella villetta dei Poggi e le definisce “senz’altro non limpide, caratterizzate anche da errori e superficialità”. Secondo la Cassazione sono giusti i sedici anni inflitti a Stasi ed è legittimo il no alle aggravanti della crudeltà perché non ci sono elementi “univocamente dimostrativi” che Stasi abbia “agito con crudeltà”. Nel dettaglio, il quadro indiziario a carico di Alberto Stasi, osserva, “non lascia alcuno spazio, invero, a versioni alternative dotate di razionalità e plausibilità pratica, non essendo sostenibili, in base ai dati acquisiti al processo, quelle pur ipotizzate dalla difesa dell’imputato, o di fatto, comunque, scandagliate, analizzando la vita di Chiara, le sue frequentazioni, il suo ambito familiare”.
La Cassazione mette in risalto anche le “falsità” che hanno caratterizzato i racconti di Alberto Stasi alle forze dell’ordine. E definisce “immune da vizi la valutazione della Corte territoriale in merito al fatto che la mancata rilevazione di tracce/particelle di sangue o di Dna della vittima sui tappetini dell’auto Golf – che l’imputato, dopo la scoperta del corpo di Chiara, ha dichiarato di aver subito utilizzato per recarsi dai Carabinieri – rappresenta un indizio importante, al fine di ritenere la falsità del racconto di Alberto Stasi nella veste di scopritore del delitto”.
Secondo la Cassazione poi “non merita censura la valutazione conclusiva della Corte territoriale secondo cui Alberto Stasi ha reso un racconto illogico e falso, laddove ha riferito di avere scoperto il corpo di Chiara Poggi solo alle 13,50”. Quanto agli indizi a carico di Stasi, la Suprema Corte rileva che “come correttamente rilevato dalle parti civili (i genitori e il fratello di Chiara Poggi), i dati indiziari di partenza non sono mai stati posti in discussione e sono risultati certi nella loro consistenza oggettiva”. Si ricorda che Stasi è stato assolto due volte prima che la Cassazione annullasse con rinvio – il 18 aprile di tre anni fa – la sentenza assolutoria nei suoi confronti.
Dunque, giudicando “infondato” il ricorso della Procura di Milano, che chiedeva di inasprire la condanna per Stasi, osserva che “non merita censure” la decisione della Corte d’assise d’appello di Milano (dicembre 2014) di non riconoscere l’aggravante della crudeltà al delitto di Chiara. In proposito, la Suprema Corte sottolinea che “la condotta ascritta all’imputato è stata commessa con dolo d’impeto e, dunque, inquadrata come ‘risposta immediata o quasi immediata ad uno stimolo esterno’, senza alcuna programmazione preventiva”.
Ripercorrendo la dinamica del delitto, la Cassazione rileva che “le modalità dell’omicidio lasciano insinuare il ragionevole dubbio in merito alla volontà dell’imputato di infliggere sofferenze gratuite a Chiara, atteso che la ricostruzione del Pg – a fronte di quella ritenuta plausibile dalla Corte territoriale (circa il mero intento di Alberto Stasi di disfarsi di Chiara) – non appare supportata da elementi altrettanto convincenti, come quelli considerati dai giudici del rinvio”.
In definitiva, per la Cassazione sono giusti i sedici anni per Stasi perché – nonostante la richiesta della Procura milanese che ha messo in risalto “il trascinamento” del corpo di Chiara “avviato prima dell’inflizione degli ulteriori colpi letali, sia il lancio di Chiara giù dalle scale” per dire dell’intento dell’imputato “di infliggere alla vittima sofferenze gratuite, con malvagità e insensibilità” – “non si ritiene siano univocamente dimostrativi dell’aver agito con crudeltà”.
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