di FEDERICO BETTA – La Compagnia pugliese VicoQuartoMazzini debutta al RomaEuropaFestival con La Ferocia, spettacolo diretto da Gabriele Paolocà e Michele Altamura, tratto dall’omonimo romanzo di Nicola Lagioia, Premio Strega 2015.
Passare dalla narrazione di un autore denso e stratificato come Lagioia, a una scrittura di scena convincente e risignificante, è la prima scommessa vinta da questo lavoro, che riesce nell’ardua impresa di sostenere la tragica contemporaneità del romanzo.
Linda Dalisi ha curato l’adattamento drammaturgico sostenendo con suspence crescente e grande tensione cinematografica le principali linee narrative della vicenda. Oltre alla riedizione di molte descrizioni del romanzo in dialoghi e monologhi per gli attori, uno dei punti centrali della riscrittura è la focalizzazione della storia verso un fuori campo oltre il proscenio. Il grande vuoto paradossalmente materializzato tra il pubblico e i protagonisti evoca la misteriosa figura di Clara Salvemini, donna libera e perduta, figlia di un influente costruttore edile, apparentemente morta suicida. Con la sua ingombrante assenza ha il potere di incarnare una sorta di “fantasma della borghesia” e tutta la decadenza di una civiltà patriarcale, corrotta e vampirizzata da sé stessa. Nel dialogo tra presenza e assenza, tra placo e platea, tra storia narrata ed esperienza teatrale sta forse una delle chiavi più importanti di questo lavoro che ha il coraggio di interrogarsi e interrogarci sullo stato di salute delle nostre pericolanti società.
Questa leva drammaturgica fondamentale, agita e subita dai bravissimi attori (Roberto Alinghieri, Michele Altamura, Leonardo Capuano, Enrico Casale, Gaetano Colella, Francesca Mazza e Andrea Volpetti) viene innescata in tutta la sua potenza dal personaggio di Michele (un umanissimo Gabriele Paolocà), contraltare e alterego del personaggio di Clara. Figliastro che fa ritorno a casa assetato di verità, pezzo rotto segnato da una malattia psichica che parla di una famiglia cannibale, è proprio Michele a mostrare al pubblico in maniera empatica la spietata analisi di un’evidenza. Una famiglia nella quale non esistono dialoghi, se non per risolvere abusi edilizi e corrompere funzionari, dove abita solo la fredda solitudine di monologhi che si sovrappongono, non è più altro che una serie paratattica di folli egoismi rinchiusi in una teca.
La scenografia glaciale di Daniele Spanò riproduce nello spazio questa prigione, realizzando al tempo un plastico entro cui si muovono marionette obbligate nei loro ruoli e una gabbia che incatena animali schiacciati dalle proprie ossessioni. Così il disegno luci assolutamente innaturale di Giulia Pastore modula impercettibilmente delicate atmosfere azzurrognole a tagli incandescenti che scavano i volti nella banalità del male.
La regia millimetrica accompagna continuamente questa affascinante distonia, questo stare insieme dei famigliari in uno stesso luogo, dove la violenza trattenuta è il marchio di una sopravvivenza a scapito uno dell’altro: tutti sono pronti a nascondere, inghiottire e subire solo per colpire ancora più ferocemente.
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