di SERGIO SIMEONE* – “Ma Hamas non è la Palestina” hanno detto quasi all’unisono sia la presidente del Consiglio che la segretaria del principale partito di opposizione, Elly Schlein, quando si è verificato l’orrendo attentato del 7 ottobre mentre si era in attesa della reazione militare di Israele, che, si temeva, avrebbe investito in maniera indiscriminata tutti i palestinesi di Gaza.
Molti hanno interpretato questa frase, in sé giusta, come se volesse intendere che Hamas non rappresenta la volontà dei palestinesi. Molti hanno pensato cioè che Hamas fosse come le brigate rosse nate in Italia negli anni ‘70, le quali dicevano di rappresentare la classe operaia, ma rappresentavano invece solo la loro ottusa ferocia. La classe operaia, invece, partecipava in massa alle grandi manifestazioni indette contro di loro dai tre sindacati confederali.
Si tratta di una interpretazione completamente errata. Hamas gode di un forte consenso popolare sia a Gaza che in Cisgiordania. Se in quest’ultimo territorio, infatti, governato dall’ANP di Abu Mazen, non si svolgono elezioni politiche da 18 anni è perché c’è la matematica certezza che se si tenessero Hamas vincerebbe a man bassa. L’interpretazione corretta della frase su citata è un’altra: non sono allo stesso modo responsabili un popolo che si sente, ed è realmente, oppresso, conculcato in tutte le sue esigenze vitali, dalla libertà al benessere economico, e che è alla disperata ricerca di qualcuno che lo faccia uscire da questa condizione, ed un gruppo terroristico che cavalca la rabbia di questo popolo perseguendo una soluzione estrema: la distruzione dello stato di Israele a costo anche dello sterminio dei suoi abitanti.
Obiettivo di Israele, perciò, doveva essere togliere il consenso dei palestinesi ad Hamas e poteva farlo in un solo modo: dimostrando, anche nel condurre la reazione militare all’orribile attentato subìto, di saper distinguere tra Hamas e popolazione civile palestinese, demolendo la prima e risparmiando la seconda, che andava invece soccorsa ed aiutata a far fronte almeno alle necessità primarie (medicine e cure ospedaliere, cibo, acqua, energia elettrica, ricovero). E’ quanto ha tentato di suggerire il suo più importante alleato, il presidente degli Stati Uniti. Ma Netanyahu ha fatto orecchie da mercante: è inutile elencare, perché sono sotto gli occhi di tutti, le azioni belliche che hanno colpito duramente tutti gli abitanti di Gaza, non risparmiando donne, vecchi, bambini e malati. Basti solo ricordare per tutte, a dimostrazione della spietatezza che anima il premier israeliano, che quando l’esercito ha deciso di fornire il carburante agli ospedali perché potessero far funzionare i macchinari, Netanyahu si è opposto recisamente. Il risultato di questa scelta sarà che aumenterà l’odio dei palestinesi contro Israele e che dopo la distruzione di Hamas nascerà una nuova organizzazione terroristica che si proporrà l’obiettivo di distruggere Israele.
Ultimamente si è affacciata l’ipotesi Blinken di affidare all’ANP l’amministrazione di Gaza dopo le operazioni militari contro Hamas. L’idea in sé non è errata, ma solo se rappresenta un primo passo verso una soluzione del problema palestinese, altrimenti Abu Mazen sarà considerato un Quisling agli ordini dell’occupante israeliano. Il vero problema di Israele si chiama Netanyahu (foto) e la sua folle politica militarista. Finché gli israeliani non si decideranno a mandarlo a casa e sceglieranno una guida che raccolga l’eredità di Rabin, in quella martoriata regione non vi sarà mai pace.
*Sergio Simeone, docente di Storia e Filosofia, è stato anche dirigente del sindacato Scuola della Cgil
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