di FEDERICO BETTA – Debutto accolto da una marea di applausi quello de Il grande vuoto, l’ultimo spettacolo della regista Fabiana Iacozzilli (foto) a Romaeuropafestival 2023.
Il lavoro conclude la Trilogia del vento, dopo La classe e Una cosa enorme. Il primo ci aveva tenuto la mano tra i banchi di scuola di una infanzia fatta di voci e burattini dagli occhi grandi e i cuori fragili; mentre il secondo ci ha travolti con una gestazione tanto grande da divenire assoluta, per sfociare nella tenera fragilità della vecchiaia. Ne Il grande vuoto si intersecano due linee del tempo che soffrono la perdita della memoria e l’accumulo dei ricordi.
Il prologo è un dolcissimo scambio tra una coppia di anziani (Ermanno De Biagi e Giusi Merli) che vive il suo interminabile tempo dell’azione come se ogni atto fosse sempre anche un altro, come se ogni movimento fosse anche il suo opposto. Il fondale è illuminato e brillante e tutta la luminescenza dorata sembra già una nostalgia, un addio prematuro a quella minuscola automobile capace di racchiudere l’immenso affetto tra i due, che battibeccano solo perché si amano da sempre.
Con uno taglio cinematografico si accende su un grande pannello il titolo dello spettacolo che lascia spazio alla scena centrale: un interno famigliare dove nella pesante assenza di un genitore si insinua, con la crudele indifferenza della malattia, la degenerazione cerebrale della madre. Le parole, i gesti e gli affetti prima si ripetono, poi diventano ossessivi e infine esplodono nell’incomprensione, in una lunga rincorsa di qualcosa di imprendibile. I due figli della donna (Francesca Farcomeni e Piero Lanzellotti), ma specialmente la figlia preferita dal padre assente, non riescono a integrarsi in una situazione che cambia di minuto in minuto. La madre che si incanta in un racconto ripetuto allo sfinimento, è riflessa nel tentativo fallimentare della figlia, incapace di assistere inerme allo scioglimento della coscienza materna. In questo doppio, che si delinea come un duello e sfocia nella sopraffazione, la riflessione di Iacozzilli permette al teatro di assurgere a spazio di salvezza. E l’ultimo atto, che non svelo perché è la sorpresa più toccante, consente ancora di più alla messa in scena di diventare dispositivo magico, capace di ricucire gli affetti massacrati dal dolore. In quello che diventa un legame teneramente comico, commuove una ritrovata intesa familiare dove chi ha imparato ad accettare il vuoto si mette finalmente a disposizione della sofferenza. Per trasformarla davvero in un’opera di bellezza.
Gli interni realistici e gli oggetti totemici, così come i cambi di prospettiva tra teatro e video, scena e realtà, oppure la gestione del tempo che modifica l’esistente senza che nemmeno ce ne accorgiamo (per esempio con l’intervento etereo e concretissimo della badante della madre, Mona Abokhatwa per la prima volta in scena), fanno di questo lavoro un’opera piena di filamenti, capaci di fluire oltre il privato autoriale per annodarsi stretti alle viscere del pubblico.
Una nota di merito va alle attrici e agli attori di questo spettacolo, un gruppo di grande generosità che testimonia notevole coesione progettuale e tutta la potenza della propria unicità.
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