“La Harvard University sostiene il popolo dell’Ucraina”. Così Lawrence S. Bacow, quando nel 2022 era rettore del prestigioso ateneo, all’indomani dell’inizio della guerra. Poco dopo la decisione della Corte Suprema di revocare il diritto all’aborto nel 2022 la University of California ha annunciato che quella sentenza era “antitetica alla missione” dell’università e i suoi valori.
Questo tipo di posizioni nette su eventi che influenzano la società non è stato possibile con la recente guerra nel Medio Oriente. Infatti, il complesso conflitto fra Hamas e Israele ha persino spinto il consiglio editoriale del Washington Post a consigliare alle università di mantenersi lontano dalle polemiche del giorno.
Nelle recenti settimane però le università si sono trovate coinvolte a causa di manifestazioni pro e contro i due gruppi, riaccendendo la questione del ruolo degli atenei nella società. Le manifestazioni in parecchi campus di grande prestigio, non completamente pacifiche, hanno costretto i rettori a prendere posizioni che non convincono tutti. Alla Harvard l’attuale rettrice Claudine Gay ha condannato in maniera fortissima le “atrocità barbariche causate da Hamas” ma ha rifiutato richieste di punire gruppi di studenti che avevano manifestato a favore dei palestinesi. La Gay ha reiterato l’importanza di garantire la libertà di parola a tutti gli studenti. Anche al Massachusetts Institute of Technology (MIT) alcuni studenti non sono stati puniti dopo alcune trasgressioni. L’amministrazione temeva che alcuni di loro potessero essere deportati in paesi dove la loro vita sarebbe messa in pericolo.
Ciononostante, le recenti manifestazioni sul conflitto in Medio Oriente hanno spinto il Dipartimento di Pubblica Istruzione a indagare possibili abusi di antisemitismo o di islamofobia in sette università. Alcuni di questi atenei indagati includono nomi blasonati come la Columbia University, Cornell University, e The University of Pennsylvania, ecc.
Il Washington Post nel suo editoriale incoraggia le università a seguire i principi stabiliti dalla University of Chicago inclusi nel Kalven Report del 1967. In poche parole il documento reitera il ruolo neutrale dell’università senza prendere posizioni che sminuirebbero la sua missione. Altre università hanno però preso posizioni nette su questioni dove gli animi non erano così accesi. Nel caso dell’aborto, della guerra in Ucraina e nel notissimo caso di George Floyd, parecchie università hanno alzato la voce a favore di posizioni che potrebbero sembrare ideologicamente di sinistra. Ma si trattava di casi dove l’opinione pubblica si trovava in grande misura uniforme. Nel caso della guerra in Medio Oriente la situazione è molto diversa poiché ambedue le parti hanno ragione ma torto allo stesso tempo. Sfortunatamente stanno cercando di risolvere le differenze mediante la forza, causando la morte di tanti innocenti. Si tratta di qualcosa che occorre da tantissimi anni e sfortunatamente si continua in quella strada che produce sempre più morti e non conduce alla pace e sicurezza per nessuno.
Il Washington Post nel suo editoriale riconosce il diritto di università stabilite con principi religiosi di prendere posizioni nette, consistenti con la loro fondazione. Suggerisce che questi istituti posseggono in partenza un’ideologia ristretta mentre quelle pubbliche hanno il dovere di rimanere aperte a tutti e quindi devono promuovere le diverse forme di pensiero. Come istituzioni, però, secondo il Washington Post, questi atenei non si possono permettere il lusso di decidere quale sia la posizione da promuovere. Quindi dovrebbero in un certo senso tacere su questioni sociali, politiche o ideologiche. Alcuni hanno fatto notare però che il silenzio è partner di complicità. Citano giustamente Dante il quale condanna gli ignavi che non scelsero né il bene né il male nell’Antinferno, e quindi non sono desiderati né in cielo né nel profondo inferno.
Il ruolo delle università in casi di situazioni come la guerra in Medio Oriente è ovviamente difficilissimo da gestire anche perché una scelta netta a favore o contro uno dei gruppi produce reazioni che mettono in pericolo la loro sostenibilità. Le università dipendono finanziariamente dai fondi governativi ma anche da donazioni di individui privati. Una posizione che non quadra con i leader politici du jour potrebbe tradursi in riduzioni ai bilanci o peggio. In America lo abbiamo visto in tempi recenti in Florida dove il governatore di destra Ron DeSantis ha usato il suo potere e quello della legislatura dominata dal suo partito per colpire le università. Ma anche nei casi di donatori privati le posizioni chiare su situazioni spinose causano difficoltà finanziarie. Dopotutto queste donazioni non sono totalmente altruiste. I grossi donatori vogliono una università che rifletta almeno in parte i loro valori.
Da non dimenticare anche la tradizionale animosità della destra verso le università considerate rappresentanti delle élite, contrapposte alla classe operaia. Persino alcuni dei politici più noti incluso DeSantis strillano contro queste élite anche quando loro stessi ne fanno parte. Il governatore della Florida è infatti laureato da due delle più prestigiose università, Yale e Harvard University. Nel Partito Repubblicano, come ha ammesso lo stesso DeSantis, lauree da questo tipo di università sono una macchia perché associate con idee progressiste. Si allaccia questo concetto alla critica che le università indottrinano gli studenti con idee di sinistra. Non ha funzionato ovviamente con lui ma neanche con parecchi membri del Partito Repubblicano e sei giudici della Corte Suprema tendenti a destra. Questi includono due di Harvard (Neil Gorsuch, John Roberts) e tre di Yale (Sam Alito, Brett Kavanaugh, Clarence Thomas), e Amy Coney Barrett (University of Notre Dame). Anche le tre giudici che pendono a sinistra sono laureate da Harvard (Elena Kagan, Ketanji Brown Jackson) e Sonia Sotomayor (Yale). Se le università indottrinano gli studenti di ideologia sinistroide lo fanno solo con la minoranza.
Le università sono istituzioni imperfette come tante altre ma indispensabili allo stesso tempo. Considerando il fatto che in passato abbiano preso posizioni coraggiose su alcuni temi sociali e politici farebbero male a cambiare. Nel caso della guerra fra Hamas e Israele non dovrebbero scegliere uno invece dell’altro ma la via di mezzo che sarebbe una preoccupazione per le quasi 15 mila vittime e proclamare il bisogno per un cessate il fuoco. Questa posizione sarebbe difficile da attaccare. Sarebbe la strada giusta. Il silenzio equivale a un’altra posizione, quella di mantenere lo status quo che continua a seminare vittime. Il silenzio uccide.
*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.
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