di FEDERICO BETTA– Un gruppo di ragazze affiatate ha messo in scena un testo affilato di un giovane drammaturgo inglese (Evan Placey) mostrandolo in prima nazionale per I solisti del teatro ai Giardini della filarmonica di Roma.
Girls Like That è ambientato in una scuola high class dove le ragazze si incontrano alle elementari per crescere insieme fino alla maturità.
L’occasione del racconto è una foto di una compagna di classe nuda che viene diffusa sui social network, aizzando i peggiori comportamenti delle conoscenti e di tutta la scuola che stigmatizzano la povera ragazza come una poco di buono. Con sagacia e irriverenza, diversissima sorte tocca al ragazzo più ambito della scuola che, apparendo in foto nudo anche lui, diventa virale con un controcampo sulla storia centrale che ne mette in luce tutti gli aspetti più negativi dell’educazione di genere.
Tra invidie, lotte intestine e solidarietà femminile, la storia svolge un filo rosso lungo ottant’anni, tra le esperienze delle studentesse in crescita e gli sviluppi del movimento femminista. La tecnica di montaggio alternato, che giustappone le due serie di avvenimenti uno dopo l’altro, rende prima incomprensibile e poi vivace un racconto che sembra un mito antico. Come se sempre si ripetessero gli stessi eventi, lo spettacolo salta tra passato e presente con una velocità da taglio cinematografico, intervallato da stacchetti musicali.
Il testo scorre sostenuto da un ritmo che fa sentire tutto il carattere del drammaturgo che ha studiato al Royal Court Young Writers, un luogo dove i giovani autori vengono seguiti e aiutati a espandere le proprie caratteristiche.
Le quattro ragazze (Flaminia Cuzzoli, Flavia Mancinelli, Diletta Masetti e Ottavia CH Orticello) sono disinvolte e interpretano le parti di ragazze diverse, ma accomunate da un cinismo new media con pochi scrupoli, con leggerezza e coinvolgimento, come fosse materia che hanno vissuto sulla propria pelle. I temi trattati sono immensi: si passa dal ruolo del singolo in gruppo, al valore della responsabilità individuale, dalla sessualità ai rapporti di genere, tutti immersi in un pervasivo bullismo. Il ritmo non lascia spazio a troppa riflessione e l’allestimento scenico è semplice e calibrato facendo lavorare pochi oggetti ben studiati.
Rimane un fondo di perplessità sull’aspetto registico dello spettacolo. Forse il regista, che è l’unico uomo coinvolto nel progetto (Emiliano Russo), non sfrutta appieno le potenzialità in campo, risolvendo i passaggi da un tempo all’altro e da un momento all’altro con intermezzi musicali. I balletti, che all’inizio sembrano tradurre in movimento un turbinio di emozioni compresse ed esplose, via via si riducono a veri stacchetti televisivi che, senza grande impatto, non fanno che alzare ancora più il volume di un testo già di per sé sfacciato (le coreografie sono di Monica Scalese). E in tutto il progetto striscia un certo compiacimento, una forza esibita, una malignità urlata che raddoppia continuamente la voracità di un drammaturgo che forse era da trattare con più delicatezza.
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