di ENNIO SIMEONE – Attraverso il Quotidiano del Sud (edizione della Basilicata) ho indirizzato questa lettere aperta all’onorevole Roberto Speranza, già capogruppo del Pd alla Camera, e per conoscenza a Pierluigi Bersani, con il quale condivide la leadership della sinistra nel partito, la cui Direzione domani (mercoledì 7 dicembre) si riunirà per un primo bilancio dell’esito del referendum.
Onorevole Speranza,
le agenzie di stampa riferiscono che il giorno dopo l’ esito del referendum costituzionale e alla vigilia della riunione della direzione del Pd lei ha dichiarato: “Non ho mai detto a Renzi di dimettersi da presidente del Consiglio, figuriamoci se gli chiedo di dimettersi da segretario del Pd”. Non le chiedo il motivo. Lo immagino. Avendo il doppio dei suoi anni e avendone trascorsi la metà militando nel Pci – sia pur da giornalista (cioè con l’autonomia che ci era garantita nel rispetto della professione) – so quanto la difesa della unità del partito sia sempre stata considerata, a costo di rinunce e di autocondizionamenti, un valore importante, tramandato e riaffermato anche nel Partito democratico fino a qualche anno fa.
Sì, fino a qualche anno fa, quando, attraverso lo scellerato stravolgimento imposto alle regole delle “primarie” fu ammesso a votare la scelta del segretario del partito chiunque volesse parteciparvi. In quello stesso momento il Pd smise di essere un partito per diventare una strana associazione, un agglomerato politico nobilitato dal termine “comunità” usato con insistenza nelle riunioni della vostra direzione da quell’ondivago (evito l’aggettivo “equivoco”) personaggio dalla firma facile di labili patti preelettorali, lo stesso che nella direzione del partito si fece portavoce della traduzione dell’hastag #enricostaisereno in voto di sfiducia contro Enrico Letta.
E in un’associazione di tal fatta le regole, anche quelle deontologiche, di partito, e per di più di un partito della sinistra, finiscono per non avere più cittadinanza, se non a beneficio della volontà assoluta di chi lo dirige. Il quale, a sua volta, quelle regole le calpesta, perché lui al verbo dirigere preferisce il verbo comandare.
Matteo Renzi a questo criterio si è ispirato e continuerà ad ispirarsi se resterà a capo del Pd, in spregio di quello che è stato un massiccio voto di sfiducia popolare sia nei confronti della sua riforma costituzionale, sia nei confronti della sua persona, per la politica di cui si è fatto portatore e per i metodi con cui ha preteso di imporla.
Perciò bisogna esigere senza esitazioni le sue dimissioni da segretario del partito, addirittura prima ancora che da capo del governo. Come ha già fatto Francesco Boccia (foto a lato).
Se non lo fate, se pensate di uscire dall’angolo in cui lui ha cacciato il Pd concedendogli di continuare a spadroneggiare (che è l’unica cosa che sa fare) da straordinario imbonitore, aduso al linguaggio demagogico dell’autentico populista, porterete la grave responsabilità dell’ulteriore snaturamento del partito e del suo progressivo abbandono da parte dei settori migliori del mondo democratico.
Ne avete la possibilità e la potenzialità? La risposta vi arriva dall’analisi del prestigioso Istituto Cattaneo sui comportamenti dell’elettorato in questa consultazione referendaria. Nelle città del Nord e del Centro – dice quell’indagine – il peso della diaspora degli elettori Pd verso il No varia da un minimo di un quinto (20,3% a Firenze) a un massimo di un terzo (33% a Torino); al Sud questo peso è ancora maggiore: a Napoli e a Palermo più del 40% degli elettori Pd ha respinto la riforma, con punte ancora più elevate in molte aree del paese. Pensate quanta parte del popolo del Pd sarebbe con voi, e quanti ancora, tra coloro che hanno votato il Sì per malinteso rispetto dell’appartenenza e della disciplina, si unirebbero con fiducia. Alcuni personaggi del cosiddetto “cerchio magico” renziano, come Lotti, Carbone ed altri, dicono “ripartiamo da quel 40% che si è espresso per il Sì al referendum”, fingendo di ignorare che di quel 40% poco meno della metà sono elettori di altre forze politiche (di Forza Italia, di altri partiti del centrodestra, della Lega e persino del Movimento 5 stelle). Ma voi potete partire da quel 20 per cento di elettori del Pd di Firenze, a salir su fino al 70 per cento di alcune zone delle regioni del Sud: dalla Basilicata alla Calabria, dalla Campania alla Puglia, dalla Sicilia alla Sardegna; ma anche delle regioni del Nord: dal Piemonte, dalla Lombardia, fino al Veneto e al Friuli Venezia Giulia (governata dalla vice di Renzi, Debora Serracchiani).
E non fatevi spaventare dalle eventuali accuse di volere la scissione. L’unica arma per scongiurarla è l’allontanamento di Matteo Renzi dalle leve di comando. La scissione del Pd la vuole, e la sta praticando da tre anni, colui che usò la “rottamazione” come arma per la conquista del predominio facendo leva sullo slogan del peggior populismo, contro cui diceva di voler combattere.
Ennio Simeone
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