A 30 anni dalla morte la poesia di Agata Cesario sempre proiettata “Verso un’alba novella”

30 anni fa, il 16 maggio del 1989, veniva a mancare la poetessa Agata Cesario, alla quale il paese natìo, Cellara, in provincia di Cosenza, due anni fa ha intitolato una piazza. Successivamente, delle sue poesie – per le quali le fu assegnato il premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio dei ministri – il fratello Giacomo curò una pubblicazione postuma, di cui scrisse all’epoca il giornalista  Attilio Baglioni, cogliendone il valore e la carica di educatrice che Agata svolse con grande dedizione come docente nella scuola a Roma. Oggi, nella ricorrenza del trentesimo anniversario della scomparsa, riteniamo che il miglior modo per ricordarla sia quello di ripubblicare integralmente quell’articolo. 

di ATTILIO BAGLIONI 

La pubblicazione delle poesie postume di Agata Cesario, raccolte dal fratello Giacomo, travalica il segno della memoria e della testimonianza per una dolce e sensibile figura di donna. È, piuttosto, a me sembra, una opportuna operazione culturale che consegna alla consapevolezza comune una voce autentica di poesia. Autentica anche se non del tutto dispiegata. Chiusa l’ultima pagina, infatti, nella commozione e nel coinvolgimento del lettore si insinua e si dilata un sincero rammarico. Il rammarico che la brevità della vita non abbia permesso alla Cesario di darci più e altro di sé.

Ha scritto: “Esiste solo la gioia del dono”. La pienezza di questa gioia le è stata e ci è stata negata. Ma il suo dono, forse ancora un poco acerbo, è, però, poesia. Autentica poesia. Come è rosa, autenticamente rosa, anche il bocciolo appena dischiuso e troncato prima che tutto il colore e il profumo del fiore potessero effondersi nella gloria della maturità. Ha scritto: “la gemma è già fiore, e l’amore è già vita”.

Ora “Verso un’alba novella” si aggiunge agli “Spazi infioriti” del 1981. Prosegue, così, e meglio si definisce, l’itinerario lirico della Cesario all’interno del suo mondo – quello delle realtà sensibili e delle emozioni interiori – che si riflette e trasfigura nella lievità e nella luminosità del verso.

Non ho, non pretendo d’avere, capacità e strumenti per affrontare un’analisi critica che altri, più autorevoli e pertinenti, hanno saputo approfondire per esprimere ed esaltare la qualità poetica di queste liriche. Ma basta possedere un comune sentire per comprendere d’istinto l’eccezionale riverberazione del suo messaggio. Così dolorosamente, così gioiosamente umano. Per avvertire, cioè, le consonanze armoniose fra la sua voce sommessa e quel che di indistinto e inespresso si avvolge nell’anima del lettore e si sforza di affiorare. 

Centellinando quei versi – puliti come ciotoli di fiume, chiari come canto di allodola – li sentiamo germogliare e salire non più dalla sua pagina, non più dalla sua invenzione, ma dalla nostra stessa condizione umana, dalla nostra quotidiana esperienza interiore. È la sua voce; ma è la nostra voce. Dice di sé e di noi come i più di noi sentono e vorrebbero, ma non sanno, e non possono dire. Non è questo, forse, il fine della Poesia? Ecco la tenerezza essenziale dei versi dedicati al figlioletto: “ …mio trastullo ed incanto – mio chiuso cerchio d’amore”. Minimi segni, note appena accennate, eppure vi traboccano gli slanci d’ogni mamma del mondo.

Questa straordinaria capacità di sentire e dire può essere ricondotta a molteplici fonti. Certamente al carisma di un’anima prediletta dalla Grazia. Certamente ad una esperienza personale ricolma di molteplici tensioni e di molteplici snodi esistenziali. Ma certamente viene anche – io credo – dalla conquistata ricchezza di un patrimonio culturale che felicemente innesta gli umori contadini della sua terra sull’antica radice di una delle più alte civiltà dell’uomo.

È, a badarci bene, quel che chiamiamo umanesimo. Anzi, umanesimo cristiano, perché è proprio della rivoluzione cristiana l’aver scoperto e illuminato nel volto dell’uomo l’immagine preziosa del fratello (… e quel Cristo sempre-così, inchiodato, calpestato-ridotto all’uomo …”).

Per queste vie misteriose Agata Cesario ci conduce, camminando al nostro fianco e consolandoci con i suoi doni, “Verso un’alba novella”. Anche per averci richiamato, noi indolenti, noi distratti, noi ottusi nel recinto dei nostri egoismi, alle certezze che rifulgono “Dove finisce la terra e incomincia il cielo”, anche per questo, soprattutto per questo, la ringraziamo.

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