di RAFFAELE CICCARELLI*/ Se ne va un altro pezzo di storia del calcio mondiale: all’età di 88 anni, dopo una breve malattia, è morto Luisito Suarez. Per conoscere la gloria e il sempiterno diritto ad entrare nel pantheon dei miti, dei più grandi, a volte bastano piccole imprese, eventi singoli che regalano, appunto, la gloria eterna. Il più delle volte, invece, è la somma a creare il mito, il perdurare della magia che il tal personaggio è capace di sprigionare, prolungandola nel tempo, andando oltre il confine del decadimento fisico che non permette più di ammirare le gesta su un campo di calcio. È quanto si può ascrivere a Luis Miramontes Suarez, per tutti Luisito, che ci ha lasciato in queste ore.
Le origini del mito. Spagnolo in tutto e per tutto, con la Galizia nel sangue, rappresentante perfetto della sintesi della sua città, tra mare e terraferma, avamposto iberico nell’Oceano Atlantico a cui perenne guardia si trova il faro denominato Torre d’Hercules, seppe esprimere in campo l’estro e lo spirito di avventura che contraddistinguono la sua gente. Cresciuto nelle giovanili della sua città, da subito mise in mostra una tecnica sopraffina, una visione di gioco fuori dal comune, unite alla tenacia, che fu nel Barcellona che iniziarono ad avere la loro esaltazione, in un ruolo diverso da quello che avrebbe interpretato in seguito.
Il primo Suarez. I suoi esordi, infatti, furono da mezzala con il fiuto del gol, ma la sua capacità di intuire il gioco nel suo sviluppo lo avrebbe portato, poi, ad arretrare il suo raggio d’azione, esaltando la sua capacità medianica di intuire il gioco, rifinendo con i suoi lanci precisi le conclusioni a rete, il più delle volte vincenti, dei suoi attaccanti. Tutto questo, senza perdere il gusto per il gol, cui spesso arrivava con precise conclusioni dalla distanza che rendevano vano il tentativo di parata del portiere.
Luisito campione d’Europa. Sette anni durò la sua avventura in terra catalana, accompagnata dal suo esordio con la camiseta roja della Nazionale, con cui vinse anche la seconda edizione del Campionato Europeo nel 1964 con la fase finale disputata proprio in Spagna, superando all’ultimo atto l’Unione Sovietica, in un match che, visto il periodo politico, non poteva essere ascritto al solo, mero, confronto sportivo. Fu l’unica gioia con la Nazionale di Suarez che, complici gli auspici di Helenio Herrera, che lo aveva allenato al Barcellona e che nel frattempo era passato alla guida dell’Inter, seguì il suo allenatore in nerazzurro.
Pallone d’oro. Suarez nel 1960, nel pieno del dominio del Real Madrid nella da poco nata Coppa dei Campioni, aveva vinto il Pallone d’Oro, unico spagnolo ad aver centrato questo trofeo, escludendo Alfredo Di Stefano che però spagnolo era acquisito e non di nascita (era argentino), con questo viatico approdò alla corte di Angelo Moratti, e si lanciò definitivamente nel firmamento dei fuoriclasse.
Suarez campione interista. Fu proprio con i nerazzurri che Herrera arretrò il suo raggio d’azione, trasformando il suo periodo italiano in leggenda, vincendo con gli italiani tre campionati, due Coppe dei Campioni e due Intercontinentali, anche se dovette vivere l’amarezza per la finale continentale persa contro il Celtic nel 1967 e per la sconfitta nello spareggio per lo scudetto del 1964. Insuccessi che non hanno offuscato la sua immagine in nerazzurro, la cui permanenza durò fino al 1970.
Chiuse la carriera con altre tre stagioni alla Sampdoria. Appesi i classici scarpini intraprese la carriera di allenatore, in giro tra l’Italia e la Spagna, ma il massimo successo lo raggiunse alla guida dell’Under 21 iberica, vincendo l’europeo di categoria nel 1986. Un grande che va ad arricchire il pantheon dei fuoriclasse, che vive sempre nella memoria di chi ama questo sport (nella foto: Luisito Suarez ieri e oggi).
*Storico dello sport
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