Andy Warhol Superstar a Milano. L’icona evocata da Irene Serini

di FEDERICO BETTA –

Andy Warhol rivive in una trasfigurazione teatrale che ripercorre le inesauribili sfaccettature di uno degli artisti più influenti del ventesimo secolo.

In scena al Teatro Litta di Milano fino al 10 febbraio, il monologo Andy Warhol Superstar ci immerge in una vita pulsante di lustrini, dollari, feste infinite, grandi musicisti e improbabili aspiranti star che nel personaggio Warhol, più che nell’uomo Warola, hanno sperato per lanciarsi nel mondo dello showbiz. Il confronto con l’uomo si allarga a un vero e proprio faccia a faccia con un’epoca imprevedibile dove l’arte contemporanea è diventa merce tra le merci e la cultura pop ha imposto quella relazione tra umani definita da Guy Debord: una connessione mediata dalle immagini.

Sotto l’ideazione e la regia di Laura Sicignano, a interpretare il testo scritto dalla stessa Sicignano assieme a Alessandra Vannucci, l’unica attrice in scena è Irene Serini che, con il suo corpo stritolato nelle forme spigolose di Warhol, entra ed esce da diversi personaggi con l’elasticità di un’acrobata. Muovendosi agile e flessuosa in una scenografia minimale fatta di moduli in legno che diventano tavole, letti, divani, casse da morto e mobili della Factory, la Serini da vita a un Warhol in terza persona, scavato, triste, pieno di dubbi e debole come può essere solo un migrante con il cuore già nel futuro. L’icona del XX secolo è il creatore del XXI, ma non si sente nient’altro che un omino che cavalca il sogno americano: “comprare è molto più americano di pensare”, dice il personaggio riducendosi in una medietà che lui stesso ha reso eterna imponendo la propria visione oltre gli schemi.

Nonostante il progetto riveli un’autentica passione per l’essere umano Andy Wahrol e un interesse sincero per un’epoca che in pochi anni ha cambiato completamente il nostro mondo occidentale, la scrittura non sembra all’altezza delle intenzioni. La magnificenza del mondo wahroliano viene schiacciata in una ripetitività poco comprensibile appoggiandosi sull’attrice costretta a un “iperrecitazione” che rischia di minarne la bravura; e la scelta, peraltro coraggiosa, di raccontare la vita e le opere dell’artista con un “disordine poetico”, come dice la regista, rischia un impressionismo che tenta di raggiungere tutto, senza toccare niente.

Il momento decisamente più riuscito è il finale, con la fusione del personaggio Warhol con quello della madre, in un interno intimo che permette alla donna di confrontarsi con l’immensa figura del figlio, senza perdere il sentimento entusiasmante di chiunque sia coinvolto nella creazione.

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