Forse aveva torto Alfred North Whitehead quando, poco più di cinquant’anni fa, paragonava le operazioni del pensiero alle cariche di cavalleria in una battaglia che “richiedono cavalli freschi e vanno fatte nei momenti decisivi”. Per mantenere questa impetuosità napoleonica, le funzioni alte della coscienza avrebbero dovuto scindersi dalle fatiche muscolari da delegare all’instancabilità delle macchine, alla precisione degli strumenti, alla razionalità degli algoritmi.
Meno routine, più garanzia di genio e di imprese complesse, sosteneva l’illustre matematico inglese, incappando in quello che Nicholas Carr, illustre esperto di digital life, definisce “mito della sostituzione” nel suo ultimo libro La gabbia di vetro (Raffaello Cortina, pagg. 294, euro 25), opera di grande valore didattico e filosofico che ci accompagna in una seria diagnosi del mondo ipertecnologizzato nel quale viviamo immersi. Davvero, insomma, bastano la fattoria, la fabbrica, la robotica, la navigazione internet per escluderci da sequenze alienanti di vita e apparecchiarci per una dimensione di elevazione intellettuale? La storia direbbe esattamente il contrario, e Carr ci mette un carico supplementare quando dice che “il software restringe il nostro raggio d’azione” e che l’automazione non si limita a rimpiazzare l’azione umana, ma la cambia, alterando “sia il lavoro che il lavoratore”. Falso senso di sicurezza e pregiudizio (complacency e bias, dice Carr) ci spingerebbero a fidarci ciecamente di tastiere e gps, di mappe elettroniche e cibernetiche domestiche, rendendo sempre più ottuse le nostre capacità di discernimento e selezione, di vita vissuta e contatto con la realtà.
Esattamente la cornice che offre la dilatazione sensoriale scaturita dalle iperconnessioni che pratichiamo ogni giorno sul computer: sortilegio dell’immediatezza, azzeramento della fisicità e delle relazioni; illusione di un patrimonio comune (di foto, di ricordi, di idee, di like), collasso del sentire e delle trasformazioni reali.
Sicuramente ci sono attestati di reciprocità sulla Rete, di dono senza contraccambio, di condivisione di file e di risorse; si parla tanto di software e hardware scaricabili free, senza copyright e diritti di proprietà, di enciclopedie multimediali e in progress come Wikipedia, di una economia “vernacolare”, per dirla alla Latouche, affrancata dalle imposizioni mercantili, e molte interazioni fruttuose e mutuali non hanno più bisogno di luoghi specifici di adempimento e di presenze fisiche fra i contraenti. E’ pur vero, però, che parlare di una gemeinshaft fatta di esperienze condivise e di legami caldi e accoglienti è pura eresia.
La materialità delle emozioni e degli sguardi, il vincolo biologico, il fronteggiare problemi pratici, il simbolico orientato da costumi, leggi, identità, prospettive di empowermentintergenerazionale e interculturale non depone certo a favore di uno stare-insieme di tipo solo astratto, faceto o algido, quello, cioè, che schermi e display ci rimbalzano ogni giorno dalle più sofisticate interfacce cellulari che custodiamo nei nostri taschini o che troneggiano come totem sulle nostre scrivanie. Non è web-pessimismo, ma il puntare il dito su una piaga che per Putnam, ad esempio, è “cyberbalcanizzazione”, processo che accentua il declino civico e il sentirsi pasto e non parte di una istituzione e del suo telaio operazionale; mentre per Bauman, l’assenza di una sorta di pesantezza dell’essere, se così possiamo di dire, e di un face to face fra soggetti agenti, è l’indizio di una pseudo-comunità fatta di “legami senza conseguenze”, patti passeggeri e spesso scellerati, e avventurismo da laptop senza il dogma sacrosanto della responsabilità.
E allora via libera alle mitragliate di selfie dove tutti sono sempre allegri, abbracciati, soddisfatti e con un cocktail esotico in mano. Via libera alle piramidi di “amici virtuali” sui social network dove siamo solo epidermicamente “seguiti” da illustri sconosciuti che ci abitano a centinaia di chilometri e con i quali non abbiamo mai davvero condiviso nemmeno un cappuccino al bar, figurarsi l’amarezza di un lutto o di una sconfitta esistenziale. Via libera ai protocolli e alle tracciature di un sistema reticolare che ci rimanda di noi stessi l’immagine distorta di una personalità che avrebbe sempre gli stessi gusti dopo un acquisto su Amazon, che cercherebbe sempre le stesse categorie di interlocutori dopo l’”add” di un professionista particolare, e che però, guarda caso, come avviene su Facebook ormai da tanto, se vuole far arrivare nella mail di uno sconosciuto un messaggio (elemento davvero basico di una sincera socialità), deve pagare una bella manciata di monete, pena il vederselo recapitare nella cartella “Altri” dove, in pratica, non sarà mai letto.
L’utilizzo prevalentemente ludico-gossiparo-distrattivo di un certo linguaggio legato al virtuale, dunque, non fa che approfondire la barbarie mentale e l’analfabetismo di ritorno, e rendere più caotica e oppressiva quella cortina invisibile di controllo e tele-sorveglianza che ci ha trasformati in cittadini-consumatori da convogliare e soffocare nelle maglie di un mercato sempre più smart. La soluzione di Carr? Embodied cognition, conoscenza incarnata, ricostruzione del triangolo corpo-azione-ambiente. Che sa tanto di: meno autoscatti idioti e meno chiacchiere da chat, più passioni e più fatica da veri viandanti del sapere.
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