Uno degli elementi più affascinanti del mondo del calcio è legato alla numerologia, all’idolatrare un numero perché vestito da un campione. Quello classico, venerato da tutti, è, naturalmente, il “10”, numero con il quale è identificato il fuoriclasse per antonomasia, basti citare campioni come Pelè e Maradona per capirne la portata, così come fascino ha sempre destato il numero uno, che indicava il portiere o la numero “5”, quella del volante centrale, particolarmente apprezzata nei paesi sudamericani. C’è un numero, però, diverso da quelli citati, inusuale per l’epoca in cui è stato vestito, quando la numerazione era rigorosamente dall’uno all’undici, quasi a contraddistinguere l’eccezionalità del personaggio: la n. 14, e il campione in questione è Johan Cruijff. Questo il numero indossato dal fuoriclasse olandese che, con la sua maestria, ha retto il confronto della Storia con i due mostri sacri citati prima, cui va aggiunto Alfredo Di Stefano, a completare un poker di campioni irripetibile.
Il “Profeta del gol”. Cruijff ha, però, una particolarità rispetto a quegli altri: egli è stato veramente il simbolo del cambiamento epocale del gioco del calcio, piuttosto “ingessato” fino alla sua comparsa, universalmente conosciuto come Calcio Totale. Johan, insieme agli altri campioni che formarono l’Ajax e la Nazionale olandese, era il braccio esecutivo dell’idea partorita da Rinus Michels, un’idea che rappresentava un cambiamento radicale nel modo di intendere il gioco, con il coinvolgimento dell’intera squadra e non solo per reparti, un gioco “sinistroide” se vogliamo avvicinarlo ad un ideale politico proprio in questa sua idea di collettività, in cui gli anarchismi dei singoli erano messi al servizio del gruppo squadra. Cruijff fu, semplicemente, il faro di quella squadra e di quel modo di giocare, che trovò terreno e atmosfera fertilissima sul finire di quegli Anni Settanta, per la precisione a partire proprio dal quel 1968 che avrebbe apportato sostanziali modifiche al vivere sociale. Cruijff univa doti tecniche eccellenti a grandi capacità atletiche, lui pur non erculeo nel fisico, illuminante nella sua visione di gioco, ubriacante con la sua velocità come stordente con la sua capacità realizzativa, doti che lo portarono a mietere successi in tutto il mondo, come eloquentemente documentato dal suo palmares: nove scudetti e quattro coppe olandesi, uno scudetto ed una coppa in Spagna, soprattutto tre Coppe dei Campioni e una Intercontinentale con l’Ajax del triennio d’oro 1970 – 1973, biglietto da visita che gli avrebbe portato tre Palloni d’Oro e la corona di migliore di quel periodo.
L’Arancia Meccanica del calcio. Il suo cruccio restava la Nazionale: pur portati a livelli mai raggiunti in precedenza, gli oranjies con lui contesero alla Germania Ovest di Franz Beckenbauer l’alloro mondiale del 1974, non riuscendo a vincere, cominciando poi ad allontanarsi da essa e dal calcio olandese, approdando in Spagna, al Barcellona, sua seconda patria d’adozione, dove mostrò ancora le sue gesta calcistica, fino alla chiusura della carriera di calciatore prima di spendere le ultime energia negli improbabili, all’epoca, Stati Uniti. Appese le scarpette al classico chiodo, Johann intraprese la carriera di allenatore, che si sarebbe mostrata altrettanto interessante e vincente di quella di calciatore, caso raro di un fuoriclasse che riesce a farsi valere anche in panchina.
Cruijff allenatore. L’inizio, nel suo Ajax, fu vincente, ma il suo capolavoro fu al Barcellona: con il suo carattere indomito e ferreo, le sue idee figlie dirette di quelle del suo mentore, Rinus Michels, in pochi anni portò i blaugrana a diventare una forza finalmente vincente del calcio spagnolo ed europeo, conquistando quattro Liga, una Coppa Coppe e, soprattutto, la prima Coppa dei Campioni dei catalani, contro la Sampdoria di Vialli e Mancini. La sua ascesa, ora, all’Olimpo degli Dei del Calcio ci lascia soprattutto un’eredità inestimabile: il ricordo delle sue gesta calcistiche, indelebili nell’immaginario calcistico collettivo, e l’idea del suo gioco, sviluppata poi negli anni successivi nel suo Barcellona da Pepp Guardiola e ora proseguita da Luis Enrique, quell’idea che lo ha fatto essere fuoriclasse in campo, il Pelè Bianco con la sua mitica 14, fuoriclasse in panchina, di cui ammiriamo ancora l’eredità con il grande Barcellona attuale.
*Storico del calcio
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