di GIACOMO CESARIO – S’è rivestito un po’ a festa, sembra pronto a diventare un luogo affollato per un evento attesissimo. Piace per quel poco che ancora conserva di vero, di autentico, Cellara, piccolo comune del cosentino. Lo contemplo a lungo, trovandovi ogni volta qualcosa di nuovo, magari nei mesi estivi quando c’è la festa del patrono, il martire San Sebastiano (foto).
È qui che, tra vecchie pietre, si respirano suggestioni e influenze del passato. Qui gli opposti si attraggono, ed è facile passare dal sacro al profano, in un apparente contrasto. L’aria è anche quella di un paese che, col passare del tempo, vuole conservare le proprie memorie, ma è anche evidente la voglia di nuove tendenze: i giovani oggi rifuggono da vecchi schemi per cedere a mode stravaganti, si nutrono di slogan altisonanti e talvolta vuoti; sempre più ragazzi, confinati tra web e musica pop, inneggiano al dio pagano e a frotte vanno verso i luoghi della movida notturna. Ma, più di tutto, a me sembra che non siano attratti da cose che si rifanno alla tradizione. Ormai anche nella piccola chiesa di culto, dove una volta la gente accorreva per inginocchiarsi, non si vedono più accesi ceri votivi ai piedi del santo.
Cellara oggi è così: occasione ideale per ritrovarsi insieme, che è sempre piacevole, ma non sufficiente, e si fa spunto per tornare a parlare di feste patronali divenute ormai un “business” per la Chiesa, non sempre però in linea con la Tradizione e l’insegnamento perenne del Magistero (“perennis sensus ecclesiae”). Strano a dirsi, sono un esempio di dove sono gli sprechi smisurati nel presente, segnato da crisi periodiche e consistente disagio sociale: basti solo pensare a chi è senza lavoro, al tasso di disoccupazione giovanile in Calabria del 50% o alle centinaia di disoccupati a lungo termine. Soldi che in teoria dovrebbero essere destinati, almeno in buona parte, a politiche di accoglienza o a quei giovani provati dalla disoccupazione e dalle malattie, finiscono invece per finanziare tutt’altro.
Le polemiche sulla festa al Patrono
È la solita sterile polemica sulle feste dedicate appunto ai Patroni di paesi e città, ormai cadute nella banalità, durante le quali può accadere di tutto. E tutte dominate dal protagonismo, scandite da messaggi pubblicitari e discorsi politici, in comunità a pezzi, nelle quali è rimasto quasi niente di sacro.
Per questo, da un po’, sul tema e contro ogni possibile abuso, la Chiesa torna a far sentire la sua voce nel senso più propriamente religioso e liturgico, divulgando manuali di come procedere, talvolta così vaghi e generici da indurre a credere che tutto resterà come prima. Dalle istruzioni per un riordino delle feste patronali in Calabria, per le quali si trovano e si spendono somme forti, si può capire il tentativo della CEC (Conferenza episcopale calabra) di intervenire anche al fine di evitare comportamenti scorretti, possibili intrusioni, strumentalizzazioni che, come spesso accade, finiscono per far nascere dentro le comunità malumori, tensioni e spaccature. Penso al fenomeno, ormai endemico da qualche anno, e che tanto ha fatto infuriare la chiesa, degli “inchini” di santi e madonne davanti alle case dei duri e insospettabili boss (come già accaduto in Sicilia, o in Calabria a Oppido Mamertina) che hanno innescato commenti e scatenato polemiche.
Padre Pio davanti alla caserma
Ultimo caso, diventato social, l’inchino della statua di Padre Pio, e però stavolta davanti alla caserma dei carabinieri nel quartiere Zen di Palermo, uno dei più vessati e complessi. Gesto unico, che denota fedeltà allo Stato, sicuramente in ossequio a chi opera per combattere le mafie nel Meridione. E dire che, abolite nelle processioni le fermate votive, da sempre espressione della pietà del popolo, proprio alle chiese locali adesso spetta il compito di fare chiarezza su tutta una serie impressionante di “inchini” inneggianti a esponenti di famiglie mafiose, del tutto irriverenti e per fini incompatibili con quelli religiosi.
Si tiene l’ultima domenica di agosto la festa patronale di Cellara, soggetta agli umori del prete di turno, oggi qua e domani là, ridotta a un miscuglio di cose mai visto prima. Si presenta oggi, nel tempo dell’abbondanza e delle mode, come un provocatorio riferimento fra musica, spari e selfie a volontà. Regala un momento suggestivo la sfilata pop di “pullicinelle”, inventate maschere della contemporaneità, così reali, è vero, ma che nulla hanno a che fare con il culto religioso. Attrazione per grandi e piccini assume, tra bicchierate e a passo di danza, in atmosfera briosa e colorata, il carattere delle manifestazioni folcloristiche e fa pensare a qualcosa di connesso con credenze pagane e rituali di civiltà primitive, sconfinanti nella superstizione.
La festa trasformata in passeggiata
La processione del santo, la cui festa liturgica sarebbe il 20 gennaio, si è svolta a Cellara in un clima di patetico rilassamento, e mi è parsa anche per la scelta dell’ora, alle 18, come una sbrigativa passeggiata tra le stradine infuocate del paese. Il suono dei “telefonini” si confondeva con il vocio allegro di donne sfoggianti mise appariscenti, imbarazzanti dato il momento, mentre poco più avanti, altri, incuranti e ad alta voce, discorrevano del più e del meno. Al passo con la musica andavano, proprio come in una parata, attori e spettatori, da una parte il prete insieme ai suoi fedelissimi, pronti a conquistare più scena possibile lungo il tragitto, e dall’altra tutto un popolo di devoti, che seguiva la statua passivamente, al punto da sembrare di non trovarsi in piena sintonia con la parte religiosa.
E c’era chi lamentava di non sentire i canti di una volta, quelli della tradizione, ormai caduti nel dimenticatoio, che hanno unito generazioni, e che nel secolo scorso don Lorenzo Perosi definiva “melodie così pure e così semplici, così devote, e così austere tuttavia”, tanto vicine al sentire del popolo di ogni tempo e in ogni luogo. Epoca carica di ispirazione e bellezza in cui il direttore “perpetuo” della Cappella Sistina replicava all’ignoranza di certa gente in fatto di studi musicali. Perosi, d’altronde, per decenni è stato musicista di riferimento per papi e sovrani. Pio XII, che aveva promulgato l’istruzione Musica Sacram, ne apprezzava la genialità creativa, la passione genuina e devota per le arti, la “magnifica musica prodotta per la liturgia”.
Chiesa che vai, liturgia che trovi, un ritornello che si sente ormai da anni, tale infatti è la babele di riti che risulta difficile catalogarli.
D’estate, andando in giro a visitare alcune nostre chiese, da dove si entra e si esce come da un centro commerciale, capita d’imbattersi in un via vai di laiche e laici indaffarati a conquistare più metri possibili sull’altare. Ecco alcuni addetti del servizio vagare alla ricerca di chi farà la prima lettura o di chi porterà alla sacra mensa le offerte. Ecco i coristi, assai pieni di sé, tutti molto casual, prendersi i meriti per esecuzioni giudicate poi musicalmente sgradevoli e ritualmente non appropriate, in varie occasioni applauditi per repertori lunghissimi fino alla noia, e non sempre in sintonia con la liturgia, abusando della pazienza dei presenti, rassegnati a un’assistenza passiva della celebrazione.
Viene voglia di citare Giuseppe Liberto, maestro direttore della Cappella musicale Sistina, che nel suo bel saggio “Parola fatta canto”, dopo aver ricordato che “ogni mutismo non è altro che assenza di Dio”, scrive: “la musica per la liturgia nella celebrazione non deve avere una grande importanza per se stessa e non deve assorbire tutta per sé l’attenzione. Non una musica che canta solo di sé e per sé”.
Per non dire, restando in tema, del prete non necessariamente italiano, arrivato di corsa all’ultimo minuto, in jeans stretti e scarpe sportive, che sceglie financo di tradurre con sue parole alcuni pezzi della messa, costretto dalla fretta a omelie per lo più ripetitive, spesso noiose e fuorvianti, pensate secondo i propri gusti e umori. Né mancano applausi scroscianti ai funerali, discorsi dai pulpiti tributati a vivi e a morti, fiaccolate e veglie a ricordo di giovani vite, ma anche conferenze e concerti, senza nemmeno preoccuparsi di lasciare vuoto il tabernacolo.
Gli anatemi nelle omelie
E persino nelle omelie vengono lanciati anatemi contro personaggi della politica o scelte del governo, trasformando le nostre chiese in piazze dove il caos non ha mai fine.
Dati i tempi, e dal momento in cui tutto sembra sconnesso e confuso e spesso sono i laici a “dettar legge”, sarebbe di aiuto leggere la Costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium” sulla sacra liturgia, che permette di capire di più, cioè quanto sia necessaria una più diretta partecipazione dei fedeli all’evento liturgico, dove il ruolo principale è svolto dal sacerdote in vece di Cristo “alter Christus”. Ricorda a più riprese che nessuno, neppure il sacerdote, può arbitrariamente aggiungere o rimuovere niente nella liturgia, che anzi “non si introducano innovazioni, se non quando lo richieda una vera accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti” (n.23).
Alla musica sacra la Costituzione conciliare, promulgata il 4 dicembre 1963, ha dedicato l’intero capitolo VI, enunciando principi e lanciando precisi moniti anche in ordine al nesso che intercorre tra musica e liturgia nel momento in cui la chiesa è radunata per celebrare l’agape, ossia l’essere insieme. A maggior ragione, ritiene essenziale che voci, musiche e canti che accompagneranno la messa siano concertati e forniti, di volta in volta, in accordo e con il placet del sacerdote; e ancora, dovranno essere conformi al rito, tenuto conto dei tempi liturgici, e ad essi sia introdotta tutta l’assemblea riunita nel tempio: “Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio” (n.30).
Il documento ancor più chiaramente afferma che “Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, sia di sua competenza” (n.28).
Oblio sulla “Sacrosanctum Concilium”
Che la “Sacrosanctum Concilium”, di cui s’è persa memoria, sia considerata materia d’archivio non c’è dubbio. Pare che non sia stata accolta da tutti, nel clero e tra i laici. Forse anche per questo la chiesa, tutt’altro che compatta, ha perso forza e terreno. Eppure, nonostante che ripetuti e indispensabili siano stati nei decenni i suoi pronunciamenti, dettando norme e principi liturgicamente in gioco, o ancora reiterando appelli al decoro delle arti in chiesa e fra queste la musica, non si comprende come ancora continui al suo interno l’andazzo del lasciar fare tutto ciò che non si dovrebbe lasciar fare. Evitando retoriche, basta scorrere le cronache per imbattersi nella fragilità di una chiesa in affanno, indebolita nel suo ruolo, alle prese con le difficoltà del momento. Talvolta gli stessi preti, frastornati e stanchi, sanno di cedere ai problemi vecchi di anni, abbastanza evidenti in comunità secolarizzate, ormai assuefatte al peggio. Là non c’è di che impensierirsi: in molti – istituzioni compresee – sembrano non preoccuparsene e nulla cambia davvero.
Il rapporto con il popolo
Che dire? Anche questa volta a Cellara, finita la festa più attesa dell’anno, tutto è tornato ad essere come prima nel mio paese. Come altri nei dintorni – ormai spopolati e con case fatiscenti, spesso puntellate, racchiuse nella rete onde evitare il pericolo di crolli – disvela effimere apparenze. Inevitabile, sul fronte religioso, il rapporto con il popolo, sostanzialmente muto e rassegnato, che non riesce ad avere visibilità, una sua presenza non meramente retorica bensì attiva e consapevole del momento che si sta celebrando. Ma che, comunque, pare voglia rivendicare spazi e occasioni. Gente comune, ma devota e con tanta fede.
Non a caso qualcuno fa notare che alla messa della domenica vi sono pochissime persone, assenti i giovani, così tutto l’anno, lasciando intendere che qualcosa non va. Segnale di una chiesa che se perde i pezzi è perché, oltre ad aver dato un taglio al passato, si è smarrita inseguendo le necessità dell’utile e del voluttuoso. Sarà perché spesso e volentieri non sceglie il silenzio, ma prende posizione, al punto da scombussolare nel profondo gli animi e sollevare polemiche in nome di Dio. Dove Dio non c’entra nulla, se non per dare credibilità al vuoto.
Ma il tempo che scorre è prezioso e potrebbe far peggiorare le cose. Anche un piccolo centro di appena 500 abitanti deve andare veloce in tutto, e potrà esserlo solo unendo forze e conoscenze, marciando compatti.
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