DIRITTO E ROVESCIO/ di CARLO DI MARCO/ Partecipazione popolare e riforma: una relazione agli antipodi

 

Di Marco Carlo profdi Carlo Di Marco*

Il ruolo attivo dei cittadini nell’esercizio dei pubblici poteri, in un processo che ri-accentra questi nelle mani dello Stato, non si colloca bene. Anzi, il neo-centrismo nega la partecipazione popolare che nel disegno dei Costituenti rappresenta, invece, una delle due facce (fra loro coessenziali) della sovranità del popolo. Esiste, infatti, un’evidente linea armonica che fonda il dinamico combinato disposto fra gli artt. 1; 3, 2° comma; 49; 56; 58 Cost. La sovranità popolare, in altri termini, si esercita attraverso l’elezione a suffragio universale e diretto dei rappresentanti che eserciteranno i poteri, ma anche attraverso l’effettiva partecipazione di tutti al loro esercizio. L’art. 5 Cost., inoltre, si colloca vicino all’art. 3: la Repubblica delle autonomie sarebbe destinata a favorire la presenza attiva dei cittadini in un futuro quadro istituzionale in cui primeggia il livello territoriale e locale dei pubblici poteri. Partecipazione popolare e neo-centrismo, pertanto, sono inversamente proporzionali, e in un disegno di legge di revisione costituzionale che punta allo smantellamento dei principi autonomisti e del massimo decentramento possibile la partecipazione popolare non potrebbe che ristagnare e regredire, come in effetti accade.

Nel disegno di legge approvato dal Senato in prima deliberazione il 13 ottobre scorso, contrariamente a quanto sostenuto in alcuni commenti anche in sede scientifica (a nostro avviso sin troppo “entusiasti”), i principi della partecipazione popolare e del ruolo politico dei cittadini che si esercita secondo gli strumenti previsti dalla Costituzione subiscono, a un tempo, un restringimento e una singolare esegesi pasticciata.

Uno degli strumenti di partecipazione popolare al procedimento legislativo del Parlamento, come è noto, è l’iniziativa legislativa popolare prevista nell’art. 71 Cost. Ebbene, il d.d.l. in argomento innalza da 50.00 a 150.000 il numero minimo di firme da raccogliere per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare, senza alcuna reale garanzia sull’obbligo di esaminarla. Eppure il punto critico principale incontrato da questo istituto partecipativo nella storia della Repubblica è proprio questo. Vero è che gli elettori sono aumentati rispetto al 1948 e pertanto il numero minimo dei proponenti potrebbe aumentare, ma nessuna scelta in tal senso potrebbe essere efficace in assenza di un meccanismo che obblighi la Camera ad esaminare fino in fondo la proposta popolare. Ad esempio, alcuni emendamenti puntavano a rendere obbligatorio il voto finale sulla proposta d’iniziativa popolare entro dodici mesi dalla sua presentazione ovvero, a trasformare l’iniziativa in referendum legislativo su richiesta di almeno 500.000 sottoscrittori. Bene, questo avrebbe in un certo senso indotto i promotori della proposta legislativa a raccogliere da subito 500.000 firme, ma con la garanzia che nel caso di decorso inutile dei dodici mesi si sarebbe attivata persino una nuova forma di sovranità popolare legislativa che oggi non esiste.

Vi sono state, come si vede, valide proposte di revisione di un istituto di democrazia partecipativa che non ha funzionato, ma la soluzione escogitata, lungi dall’aver favorito l’effettività della partecipazione all’iter legis, l’ha invece ulteriormente intralciata. A seguito del voto del 13 ottobre scorso, infatti, dopo il primo comma dell’art. 71 si inserisce il secondo che non ha nulla a che vedere con l’iniziativa popolare. E’ da miopi ravvisare nel comma inserito l’obbligatorietà dell’esame delle proposte di legge di questo tipo. La disposizione in parola, infatti, stabilisce che il Senato può deliberare a maggioranza assoluta la richiesta alla Camera di esaminare un “disegno di legge”, e in tal caso essa avrebbe l’obbligo di procedere e di esprimersi entro sei mesi. Un disegno di legge, però, non una proposta d’iniziativa popolare. Tutti sanno che con l’espressione “disegno di legge” è indicata l’iniziativa legislativa del Governo. Essa è così definita in tutti i manuali di diritto costituzionale, fino a prova contraria, per distinguerla dalle altre quattro previste in Costituzione, definite, appunto, “proposte” o “progetti” di legge. E non per caso. Il disegno di legge segue un iter diverso: deve essere approvato dal Consiglio dei ministri e autorizzato dal Presidente della Repubblica. Non v’è chi non veda che da questo pasticcio chi trae vantaggio non è l’iniziativa popolare, bensì il Governo.

In realtà, l’unica “garanzia” prevista per le proposte di legge d’iniziativa popolare perché queste siano realmente esaminate dalla Camera è riposta in una disposizione tanto debole quanto inutile: con l’art. 11, comma 1, lett. b) del d.d.l. approvato il 13 ottobre scorso, si aggiunge al secondo comma dell’art. 71 Cost. la disposizione che rinvia ad entrambi i regolamenti parlamentari (verrebbe subito da chiedersi: che c’entra quello del Senato?) la disciplina di dettaglio su tempi, forme e limiti della discussione relativa alle proposte di legge di iniziativa popolare (qui correttamente definiti “proposte”). È noto che queste fonti, pur rientrando fra quelle primarie, sono escluse dal giudizio di costituzionalità poiché la Corte non li comprende fra le “leggi e gli atti aventi forza di legge” (sent. n. 154/1985). Dunque, di che cosa stiamo parlando? Di una garanzia riservata a una fonte normativa affidata alla maggioranza, approvata anche dal Senato che non è più rappresentativo, priva della garanzia costituzionale. Grazie per l’inutile sforzo!

Ultimo finto “regalo” al ruolo attivo dei cittadini, è la falsa istituzione del referendum popolare “propositivo e d’indirizzo”. Secondo la disposizione inserita nell’art. 11 comma 1 lett. c) del d.d.l. in argomento, perché sia istituito questo nuovo referendum ci sarebbe bisogno di una legge costituzionale. Ma perché questo rinvio? Quello in discussione non è un disegno di legge costituzionale? In realtà, visti gli equilibri partitocratici esistenti, con tale rimando ad kalendas graecas si vuole spostare l’asse di fattibilità di questo importante strumento di democrazia a un futuro improbabile, anche perché, secondo la disposizione in parola, prima dovrebbe entrare in vigore una legge costituzionale che inserisca in Costituzione l’istituto e ne stabilisca condizioni ed effetti, poi, per la disciplina attuativa, una legge ordinaria approvata anche dal Senato.

Tempi duri per la sovranità del popolo in transito, purtroppo, in meno di un secolo e con questa schiera di politici senza scrupoli, dalle utopie alle illusioni.

*Caro Di Marco è docente di Diritto Pubblico

all’Università di Teramo

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