Al teatro Argentina di Roma per il Romaeuropa Festival 2022 è andato in scena Faith, Hope and Charity, terzo e ultimo capitolo della trilogia sulle disuguaglianze del regista britannico Alexander Zeldin.
La sontuosa platea del teatro, con le luci sempre accese, si rispecchia nell’imponente ma spoglia scenografia di una associazione popolare che accoglie persone in difficoltà. Neon, mura macchiate, pochi tavoli e sedie impilate fanno da sfondo a uno spazio semivuoto immerso nell’odore di un pasto semplice che arriva ad avvolgere anche gli spettatori.
Piano piano la scena si riempie di quella vita energica e scomposta che popola i centri di aiuto, che cercano di offrire il minimo conforto a chi non ha nulla. La drammaturgia è lasciata allo sviluppo intrecciato delle piccole grandi storie di uomini e donne che non trovano un posto sicuro nel mondo ordinato dalla borghesia. Hanno tutti alle spalle storie sconvolgenti di abusi, violenza, povertà e trovano in un pasto caldo, o nelle poche chiacchiere scambiate fugacemente, un conforto indisponibile altrove. Nel susseguirsi degli incontri, tra urla sgraziate e silenzi che lasciano risuonare il tintinnio delle posate, il gruppo è guidato nella preparazione di un coro musicale che cerca di organizzare le voci dei personaggi in un unico canto di disperazione e libertà.
La potenza dello spettacolo è lasciata alla viva interpretazione di attrici e attori che si muovono sul palco dell’Argentina come extraterrestri precipitati da chissà dove. Mentre voci si accavallano, la tenerezza viene distrutta dall’angoscia e il conforto si sgretola sotto i colpi della speculazione edilizia che vuole trasformare quello spazio in qualcosa di più remunerativo.
In questa devastante differenza, tra il dentro e il fuori, tra quel luogo minimamente protettivo e un mondo di regole anonime che sovrastano le storie dei singoli, si sviluppa una profonda riflessione sulle strutture che ci uniscono in una comunità. Probabilmente ognuno di noi, seduto in sala, è stato travolto da quella verità che ha trovato finalmente posto dentro un teatro: “c’è sicuramente chi sta peggio di noi”, dice uno degli sfiancati personaggi. E ci si sente infinitamente fortunati davanti alla ferocia delle maglie burocratiche che soffocano chi non corrisponde agli standard della vita normale.
Ken Loach, al cinema, ci ha fatto conoscere da vicino la violenza sociale che subiscono ampi strati di società. Zeldin, con delicatezza e sincerità, ha permesso ai suoi attori e alle sue attrici, alcuni professionisti e altri dilettanti, di portare quello stesso spaccato di vita tra le mura di un teatro.
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