I medici oggi si trovano ad operare tra farmaci equivalenti, farmaci biotecnologici (biotech) e farmaci biosimilari, e si interrogano sulla loro reale efficacia e sicurezza; il Servizio sanitario nazionale (Ssn) si interroga sul loro valore farmacologico ed economico, fattore indispensabile per la sostenibilità. Una grande sfida che riguarda i sistemi sanitari di tutto il mondo. Ma se in questi 20 anni ed oltre il farmaco equivalente ha gradualmente visto aumentare le prescrizioni da parte dei medici e l’utilizzo da parte dei pazienti, il nostro rimane uno degli ultimi paesi d’Europa per uso dei farmaci equivalenti: in Inghilterra e in Germania la percentuale d’impiego si avvicina al 70 per cento, in Italia a fine 2015 era appena superiore al 26 per cento del totale dei farmaci di ‘fascia A’.
«Questo ritardo italiano – ha spiegato Achille Caputi, professore di Farmacologia dell’Università degli Studi di Messina, già presidente della Società Italiana di Farmacologia, in un convegno a Bari (foto) promosso da Motore Sanità con il contributo di “Mylan”– è dovuto ad una percezione non sempre positiva da parte dei medici e dei pazienti, causata a sua volta da un’informazione molto spesso superficiale e in alcuni casi distorta, che ha condizionato la classe medica e l’opinione pubblica».
Gli ultimi dati forniti dall’Associazione Nazionale Industrie Farmaci Generici e Biosimilari (Assogenerici), ha evidenziato che l’analisi dei consumi per aree geografiche conferma un robusto ricorso agli equivalenti nel Nord Italia (Piemonte, Lombardia e Veneto in prima fila), dove hanno rappresentato, nei primi nove mesi del 2017, il 35,2 per cento del mercato a unità e il 24,5 per cento a valori, a fronte di una media Italia rispettivamente del 28,3 e 19,9 per cento; consumi decisamente inferiori al Centro (25,9 per cento a unità e 18,4 per cento a valori) e al Sud (20,8 per cento a unità e 14,6 per cento a valori). Risaluta essere fanalino di coda la Basilicata con una quota di equivalenti del 18,8 per cento.
I farmaci biotecnologici rappresentano una delle novità terapeutiche più rilevanti di questi anni sia per il loro impatto sulla terapia di molte patologie, sia perché hanno aperto nuove strade per interventi farmacologici innovativi. La gran parte dei farmaci biotech di prima generazione si sta avvicinando alla data di scadenza della copertura brevettuale e per alcuni di essi tale data è imminente o già scaduta.
Ciò ha reso e renderà sempre più possibile l’introduzione sul mercato di farmaci biosimilari che, come i farmaci generici, possano essere immessi sul mercato una volta che gli originatori non sono più coperti da brevetto. In tal modo si crea concorrenza e conseguentemente riduzione del prezzo che il Ssn deve pagare per curare il paziente. Va detto che i farmaci biosimilari, a differenza degli equivalenti, come indicato dall’Agenzia Europea dei Medicinali (Ema), vengono autorizzati attraverso una procedura molto attenta ed accurata, valutando aspetti molteplici, in particolare dati tossicologici, clinici e di immunogenicità. Per le loro caratteristiche biotecnologiche, i farmaci biosimilari sono valutati dall’Ema esclusivamente tramite procedura centralizzata e se ne può chiedere l’autorizzazione all’immissione in commercio solo in riferimento ad un farmaco biotecnologico autorizzato dalla Comunità Europea.
«I farmaci biotech nascono da ingegneria genetica e tecnologia innovativa in grado di ‘ricombinare’ le molecole e i biosimilari potrebbero essere definiti i loro farmaci generici – spiega Giorgio Colombo, professore di Farmacoeconomia dell’Università degli studi di Pavia –, dopo la scadenza del brevetto, infatti, qualsiasi azienda può copiarli, produrli e venderli, e può farlo a un prezzo considerevolmente più basso poiché non deve sostenere spese di ricerca e sviluppo. Il loro impiego permette un notevole risparmio di risorse pubbliche».
Medici e pazienti tuttavia sono diffidenti nei confronti dei nuovi player che appaiono sul mercato quando il brevetto di un farmaco scade. «Non bisogna fare lo stesso errore che è stato fatto con i farmaci generici, ovvero quello di pensare che il mercato, per così dire, ‘si faccia da sé’ – ammette il professor Colombo – Bisogna diffondere la consapevolezza che i biosimilari non sono farmaci di serie B, bensì un armamentario terapeutico equivalente a quello dei biotech, in grado di migliorare la sostenibilità del sistema sanitario».
Eppure, proprio sull’impiego di questi farmaci, nel nostro Paese esistono ancora molte disparità a livello regionale. «La novità sicuramente più rilevante per il nostro Servizio sanitario nazionale – conclude Achille Caputi – è la vittoria (sentenza del Tar) ottenuta pochi giorni fa dalla Regione Piemonte su una multinazionale che cercava di evitare la diffusione del biosimilare di un suo biotech (Enbrel) a grande diffusione nel nostro paese. In particolare la sentenza afferma che “nei pazienti già in cura con un farmaco originator (Enbrel, cioè quello più costoso) la sostituzione con il biosimilare dovrà essere il più possibile favorita dai medici prescrittori”. La sentenza e la relativa delibera del Piemonte dovrebbero diventare un esempio per tante altre Regioni, specie quelle meridionali, dove i biosimilari si prescrivono pochissimo e quindi si spendono milioni di euro che potrebbero essere risparmiati».
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