Il problema Renzi: un nodo che il Pd deve sciogliere, se vuole salvarsi

di ENNIO SIMEONE – Il sottoscritto si è fatta la fama di “anti-renziano cronico”. Una fama che pesa un po’ meno oggi di fronte ai commenti dei giornali e alle interviste dei “renziani storici” sull’esito e le probabili conseguenze delle elezioni regionali siciliane, contrassegnate dalla sconfitta del Pd (relegato a 3° posto) e accompagnate dall’analoga sconfitta a quelle municipali (ma di non poco conto) di Ostia e, soprattutto, seguite a quelle delle ultime due tornate amministrative e allo smacco del referendum sulla riforma costituzionale.

Tutte le opinioni, sia pur con calibrature diverse,  convergono su un punto: Matteo Renzi è ormai un collezionista di sconfitte per se stesso, per la sinistra italiana e per il Pd (partito che è ormai difficile catalogare nella geografia politica attuale), al punto da rendere plausibile persino lo sgarbo di Luigi Di Maio, che, dopo averlo sfidato a un duello tv, ha deciso, dopo il voto siciliano, di snobbarlo con la giustificazione che non lo considera più il principale competitor.

D’altro canto bisogna sfatare la leggenda che Renzi sia un vincitore garantito, cioè l’altra faccia del leader di sinistra, che, come si è detto falsamente di Bersani, “non ha vinto” le elezioni del 2013. E’ bene ricordare che nel suo curriculum c’è un unico successo, quello ottenuto, pochi mesi dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, alle elezioni europee. L’indomani di quel 40% ottenuto dal Pd scrivemmo che una fetta notevole di voti – forse addirittura tutto 15% in più rispetto alle elezioni politiche di un anno prima – era stata “comprata” con la elargizione degli 80 euro a 10 milioni di italiani ideata da Renzi con la furbesca trasformazione di uno sconto, che doveva essere proporzionale, sul costo del lavoro in un “bonus” mensile fisso, destinato, per di più, a categorie titolari comunque di un reddito garantito.

Il seguito della sua politica di capo del governo è stato improntato a questo tipo di scelta che non aveva nulla a che vedere con la cultura e con i principi di un partito di sinistra, sfociata infine nella abolizione dell’articolo18 dallo statuto dei lavoratori.

Ecco perché, via via, pezzi di “popolo della sinistra” si sono staccati dal Pd e hanno hanno indirizzato il loro voto verso il Movimento 5 stelle oppure si sono rifugiati nell’astensionismo. Pochi quelli che il loro voto lo hanno affidato alle vecchie e nuove formazioni di sinistra, dalle quali li hanno tenuti lontano sia la ridicola frantumazione, animata da reciproca litigiosità, sia i tentennamenti, le incertezze, i timori reverenziali e referenziali nel contrastare la linea, spesso fatta di veri e propri ricatti, imposta dal “capo”, cioè da Renzi una volta impossessatosi delle leve di comando del partito e, di conseguenza, del governo, con la mortificazione o l’annullamento  di fatto del ruolo del parlamento.

Oggi l’unica via di salvezza per il Pd consiste nel disfarsi rapidamente della leadership perniciosa di Matteo Renzi. E’ questa  la condizione indispensabile per avviare in tempi stretti la ricostruzione di un fronte unitario dei progressisti. Che non potrà mai formarsi e amalgamarsi fino a quando graverà l’ipoteca di un personaggio animato da un’unica ambizione: quella di accentrare nelle sue mani il controllo del partito per garantirsi il potere del governo. Ambizione che impone di considerare false e ingannevoli le sue eventuali profferte di alleanze. E che non può mai essere la connotazione di un vero partito democratico in una democrazia istituzionale.

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