di FEDERICO BETTA
Con “La vita ferma”, “L’origine del mondo” e “Tumore” il Teatro India di Roma dedica una monografia alla drammaturga e regista Lucia Calamaro, una delle voci autoriali più intense del teatro italiano. Speriamo che dopo molti anni di presenza sulla scena teatrale, questa personale sia un modo per riconoscerle il ruolo che merita nella creazione teatrale contemporanea.
L’autrice fonde in modo veramente unico un impianto filosofico raffinato, colto e fitto di citazioni con una realtà quotidiana, semplice, fatta di quelle contraddizioni che sono il motore delle nostre giornate. Proprio la capacità di impastare materiali di diverse provenienze e livelli, quella bravura nel partire da una riflessione sugli universali e spezzarla di colpo con la scoperta di una piccola mania inconfessabile, rende gli spettacoli della Calamaro dei viaggi introspettivi multistratificati, che ci danno la possibilità di esperire ciò che diceva Giles Deleuze: “Lo strato più profondo è la superficie”.
La vita ferma, in scena al Teatro India fino al 14 maggio, è il lavoro più recente, ora in tournée in tutta Italia dopo aver debuttato al Festival di Castiglioncello nell’estate 2016.
Il tema centrale è quello del ricordo di fronte alla morte, la fatica di chi resta e di chi se ne va. Per mettere in scena un argomento così delicato, l’autrice, con il suo tocco capace di connettere piani e livelli, toni e atmosfere di diversa natura, ci mostra in parallelo il punto di vista dei vivi e quello dei morti. Facendo scorrere contemporaneamente le ossessioni di entrambe le parti, viste come fossero immerse in un caleidoscopio colorato e allo stesso tempo imprigionate in un’implacabile riflessione, ci avvinghia a un filo quasi impalpabile ma resistentissimo che ci porta a chiederci: cosa rimarrà di noi se nessuno ci ricorda più? A cosa è servito vivere e morire, se poi si muore due volte abbandonati da chi ci ha amato?
A riguardo è folgorante l’inizio: Riccardo parla con Simona, sua moglie, che in quella che sembra una giornata qualunque, dopo avergli stretto la mano, si preoccupa di essere un po’ “freddina”. Basta questa parola, “freddina”, per aprire un varco surreale nella normalità, un accesso che ci porta in una dimensione dove un dialogo tra una morta e un vivo sembra la cosa più semplice e naturale possibile. È un ricordo? Un delirio?
Non è importante, perché quello che vediamo è il dolore vivo del ricordare, da una parte, e allo stesso tempo è la sofferenza dei morti che abbandonano i propri cari, come se il ricordo resistesse, faticasse a fare il proprio corso.
Siamo di fronte alla moltiplicazione di mondi e di piani nel gioco del teatro al suo stato più puro, più semplice e chirurgico. Basta un attimo e i morti spariscono, i personaggi sono soli in scena, hanno sognato, parlavano a voce alta, ma quell’essere presente del personaggio morto, ha una funzione precisa nel testo: i morti, fin che ci sono, sono con noi, ma poi se ne vanno. Dove?
Mentre si assiste a questa storia fiume, che, divisa in tre atti, dura quasi tre ore, dove una famiglia si trova a fare i conti con un lutto in tutte le sue sfaccettature, quello che colpisce è una profonda unità del tutto. E anche nei momenti meno scorrevoli, la nostra attenzione è catturata dal mondo che abbiamo davanti. Questa grande omogeneità è data dal fatto che Lucia Calamaro è sia autrice che regista dei suoi spettacoli. I testi che crea sulla scena si producono e riproducono in infinite variazioni, e quello che può sembrare una ripetizione è sempre intricato a un salto mentale, a un improvviso slittamento. Tutto il flusso colorato e al tempo stesso crudo si forma con rigore nella parola, nella gestione dello spazio, nelle scene e nei costumi, usati come veri e propri elementi scenografici e drammaturgici.
La riuscita felice di questo lavoro è anche merito di una lunga gestazione, di circa due anni, che ha permesso agli interpreti di sentirsi a casa. Gli attori, dalle sfaccettature molto diverse, sono portatori di una bravura e un’incisività davvero uniche: il tocco comico di Riccardo Goretti, l’eleganza e l’ironia di Simona Senzacqua e la delicatezza di Alice Redini rendono quest’immersione nel confine tra vita e morte un viaggio molto piacevole.
La vita ferma è forse lo spettacolo più palpitante, denso di vitalità e comicità che Lucia Calamaro abbia messo in scena. È un lavoro a tratti struggente, ma sembra comunque attraversato da un vento di primavera, come da un soffio lieve sulla vita, sul ricordo, come se qualcosa dentro avesse fatto pace con le ferite più profonde, con le assenze dolorose.
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