di FEDERICO BETTA – Il Romaeuropa Festival ci porta dietro le quinte del teatro. Con l’ultimo lavoro del coreografo spagnolo Marcos Morau, in prima nazionale a Roma, il Teatro Argentina si denuda, lasciando intravedere la grandiosità del retropalco
Opening Night comincia da un applauso registrato e un’attrice che esce da dietro il sipario con un mazzo di fiori in mano. Le luci di sala sono ancora accese e i suoi ringraziamenti si dilungano in un tenerissimo omaggio alla magia del teatro, che unisce la presenza scenica a alla vita degli spettatori. Il monologo continua raggiungendo un lirismo che sfuma con le luci di sala, fino a che la
donna sparisce e il sipario finalmente si apre. Dietro ci aspetta un altro sipario.
Con questo gioco del teatro che parla di sé stesso, la scena si apre finalmente su una parete
attrezzata come fossimo in un retro palco, tra luci di servizio, porte, grate per l’areazione e quadri
elettrici. Nel frattempo una serie di danzatori riempie la scena mescolando un’intensa fluidità alla
rottura dei movimenti. E le luci, che per la tradizione teatrale sono la condizione necessaria
affinché la scena esista, si trasformano in un materiale, tanto quanto le americane, i neon e i
proiettori, che infestano la scena o precipitano sul palco. Le pochissime voci deragliano in
gorgheggi e lo spazio scenico si scompone nelle sue dimensioni: sopra e sotto, dentro e fuori,
davanti e dietro sembrano ormai grandezze dell’anima.
La tensione che ci avvolge dall’inizio (creata principalmente dalle luci di Dernat Jansà e dai suoni di
Juan Cristòbal Saavedra) accompagna lo splendido gruppo di performer (Mònica Almirall, Valentin Goniot,
Núria Navarra, Lorena Nogal, Shay Partush, Marina Rodríguez) e cresce fino a
un finale, che sembra trasformare la scena in una sorta di prigione senza uscita.
Si resta ammirati dalla bravura dei danzatori e un po’ commossi dalla potenza del teatro che
troppo raramente rivela la bellezza di ciò che nasconde fuori scena. Ma rimane anche un po’ di
amarezza: una visione così cupa del capolavoro di John Cassavetes (Opening Night, cui Morau ha
dichiarato di ispirarsi) sembra coglierne solo la disperazione e non il potere meraviglioso di
mescolare realtà e finzione, gioia e dolore, forza e tragica sconfitta.
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