di ENNIO SIMEONE – Dovremmo tutti augurarci che abbia successo l’invocazione – lanciata il 5 novembre da Roma – affinché si faccia ogni sforzo, a livello mondiale e senza ipocrite riserve, perché si avvii una trattativa concreta che porti ad un cessate il fuoco in Ucraina e poi ad una pace ragionevole di questo paese con la Russia. E quindi che finalmente vi sia, a partire dall’Italia, una adesione convinta all’appello, anzi alla invocazione che da mesi Papa Francesco sta lanciando perché si trovi e si riesca ad imporre alle coscienze di tutti la strada di una tregua e di un razionale approdo ad un accordo di pace sottoscritto da Putin e Zelensky.
E’ un obiettivo questo, però, difficilmente raggiungibile non solo se entrambi continueranno ad irrigidirsi nello scontro frontale, ma anche (e soprattutto) se i sostenitori delle ragioni (fuor di dubbio valide) del presidente ucraino insistessero nell’aderire inflessibilmente alla sua pretesa che nessuna trattativa possa avvenire se l’interlocutore è Putin. Ciò impedirebbe ogni parvenza di confronto e renderebbe irraggiungibile non solo un accordo ma anche solo un confronto. Perché questa condizione equivarrebbe alla pretesa che un qualsiasi dialogo possa avvenire soltanto alla condizione che Putin venga deposto (ma ad opera di chi?) dalla sua carica di presidente della Russia. Una pretesa «infantile» se non fosse illogica e non suonasse provocatoria, trasferibile solo nella trama di uno sceneggiato televisivo del genere di quello che ha reso popolare Zelensky in Ucraina quando faceva, appunto, l’attore, tanto da ricevere una investitura elettorale plebiscitaria nella realtà politica.
Però i capi di Stato occidentali (e non soltanto loro) dovrebbero, invece di corteggiarlo con visite di cortesia, convincerlo che così non si porrà mai fine a questa devastante guerra, perché il raggiungimento di una pace presuppone inevitabilmente una trattativa e ovviamente una trattativa tra nemici, che a sua volta impone una mediazione e le mediazioni comportano altrettanto inevitabilmente anche delle rinunce (certo, le meno dolorose possibili). Al contrario, il protrarsi delle ostilità comporta sofferenze, devastazioni, immani perdite di vite umane, che non vengono compensate dal giubilo per una effimera e momentanea vittoria sulle macerie del proprio paese e a prezzo del rischio di allargamento oltre i confini e di imbarbarimento del conflitto, che può sfociare nel ricorso ad armamenti micidiali.
Sono allarmi che dovrebbero indurre a ragionare diversamente non soltanto Zelensky ma anche coloro che (pure in Italia, purtroppo) sostengono l’opportunità di continuare a fornirgli senza limiti armamenti per rosicchiare all’invasore pezzetti di territorio che una settimana dopo vengono martoriati e riconquistati dalle truppe di Putin. E così via. Ma fino a quando?!
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