di FEDERICO BETTA – A guardarla in foto, Kate Tempest sembra una ragazzina delle praterie inglesi, con le guance rosse e gli occhi pieni di riflessi. Non ci si aspetterebbe mai di trovare nei suoi testi una grande forza urbana, colma di rabbia e rivolta. In effetti la poetessa, rapper, performer inglese è cresciuta nella periferia di Londra e delle città metropolitane conosce bene la violenza e la tenacia dei suoi abitanti.
Autrice premiatissima della nuova generazione di poeti, scrittrice a cavallo tra le performing art e la musica (ha inciso anche due bellissimi album), la Tempest ha pubblicato nel 2012 un testo teatrale (Wasted) che guarda in faccia la generazione dei trenta/quarantenni che si sente tradita rispetto alle aspettative della gioventù.
Tre amici si incontrano per commemorare la morte di un amico comune avvenuta tanti anni prima. Nessuno di loro è soddisfatto della propria condizione attuale e tutti e tre rimpiangono i sogni di gioventù, quando si beveva tutte le notti, si fumava marijuana negli autobus, ci si sentiva onnipotenti. Ora uno lavora in un ufficio che odia, un altro spera di sfondare nel rock senza mai crederci veramente, lei si sente d’aver buttato i suoi anni migliori insegnando in una scuola di quartiere.
Ma quello che potrebbe portare a un piagnisteo accartocciato su sé stesso, diventa l’occasione per un discorso franco, a chi può e non deve mollare. La grande capacità dell’autrice è quella di guardare dritto in faccia le contraddizioni del presente, senza risparmiare responsabilità sociali e individuali, per rilanciare verso un migliore futuro possibile. Nelle parole rappate che si rubano il tempo l’una con l’altra, c’è tutta l’urgenza di chi si sente fluttuare sull’orlo di un precipizio, ma anche il desiderio di chi in quel precipizio non ci vuole cadere definitivamente.
Giorgina Pi, dopo aver portato in Italia un testo di Caryl Churchill, continua il suo lavoro al fianco di un’altra donna della drammaturgia inglese e mette in scena Wasted (Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con Angelo Mai / Bluemotion). Annullando ogni riferimento geografico fa rilucere le parole della Tempest sulla città tentacolare come fossero una fotografia precisissima della Roma più decadente.
La regia ci porta in una sala prove, tra strumenti e frammenti audiovisivi. I protagonisti impugnano dei microfoni che li fanno splendere di una luce quasi magica e si rivolgono al pubblico in quella che sembra una confessione o una preghiera. Poi i tre si accasciano sui ricordi, su quel passato che li ha uniti e poi gettati nella vita da adulti senza preavviso. Potrebbe essere una caduta. Ma la regia, che lascia completo spazio al testo e alle interpretazioni dei tre bravi interpreti (Sylvia De Fanti, Xhulio Petushi, Gabriele Portoghese), intreccia presente e passato, come se il tempo fosse una foresta di presenze perdute o tempi lontani che non se ne vanno. Il rap della Tempest è rivisto in chiave punk-rock, con le chitarre elettriche che affondano nella nebbia dell’alcol e delle voci squarciate. Ed è proprio il rischio continuo di dissolversi in una deriva senza forma a mostrare la grande vitalità di tutto il lavoro, come se la disperazione più profonda fosse anche sempre il potere più intenso. Tanto che l’unica vera localizzazione della storia (una struggente interpretazione de La donna cannone di Francesco De Gregori) si infiltra nelle fibre del pubblico con la sua tenerezza ribelle.
Lo spettacolo, nato dalla penna di una ragazzina inglese, parla così a tutti noi, travolti da un vortice che sembra senza uscita. Per spronarci, con le chitarre elettriche e le voci graffiate, a non rimpiangere ciò che non c’è più, ma ad alzarci, e una buona a volta crescere, per riprenderci quel futuro che sembra svanito.
FOTO di Simone Cecchetti
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