«L’ALTRO DEGLI ALTRI»/ Un’analisi del sociologo DOMENICO DE MASI pubblicata dal “Fatto quotidiano” su passato, presente e futuro di Roma a un mese dalle elezioni amministrative

S’intitola «I nuovi Baudelaire e Roma domani» la riflessione (un vero e proprio saggio) offerta dal sociologo Domenico De Masi (foto) ai lettori del “Fatto quotidiano” del 4 settembre, che riteniamo opportuno riproporre nella rubrica “l’ALTRO degli ALTRI” anche ai nostri lettori a un mese dalle elezioni amministrative che si svolgeranno nella capitale per la elezione del nuovo sindaco e del nuovo consiglio comunale.

La notizia “falsa” e “non rispondente alla verità fattuale” riguardava “un fatto non vero”, cioè che Ignazio Marino (foto) sarebbe stato costretto a dimettersi dall’University of Pittsburgh Medical Center dopo

Ignazio Marino (foto Ansa di Angelo Carconi)

una controversia riguardante alcune irregolarità nei rimborsi spese. Attualmente Marino è Executive Vice-President della Thomas Jefferson University, una delle prime cinque Facoltà di Medicina e Chirurgia degli Stati Uniti. Dunque, resta stimatissimo a livello internazionale per quanto riguarda la sua professione medica che ha esercitato fino ai cinquant’anni, quando fu folgorato dalla politica a Roma. Eletto due volte senatore, presidente di un gruppo parlamentare e di una commissione d’inchiesta, nel 2013 vinse le primarie su Gentiloni e conquistò il Campidoglio; nel 2015 divenne sindaco della neo-istituita Città Metropolitana. Con la sua giunta, composta per il 50% da donne e da molti tecnici, intraprese una coraggiosa battaglia contro le rendite di posizione, gli abusivismi, la mafia di Ostia e il degrado dei monumenti. Pure essendo cattolico, trascrisse sul registro anagrafico i matrimoni contratti all’estero fra coppie dello stesso sesso e dichiarò il suo aperto favore sia al “Roma Pride” che al testamento biologico. Mettersi allo stesso tempo contro il clientelismo del suo stesso partito, il bigottismo del Vaticano, i privilegi dei palazzinari e la ferocia della mafia significa collocarsi nel bersaglio di quattro potentissimi cerchi di potere. Andreotti direbbe che “se l’è cercata”.

Perfino Papa Francesco, solitamente gesuita, scese in campo contro Marino con un intervento astioso e infondato che, se non fosse venuto da un Papa, avrebbe fatto in Tribunale la stessa fine delle diffamazioni dei Feltri e dei Giordano. A Matteo Renzi, allora segretario dello stesso Pd cui apparteneva Marino, il comportamento integerrimo di quest’ultimo apparve intollerabile. Nella città dove, da millenni, le ruberie impunite saccheggiano disinvoltamente suolo e denaro, fu imputato al sindaco di avere parcheggiato la sua Panda in sosta vietata e di avere pagato una bottiglia di vino con la carta di credito del Comune: tutti capi d’accusa poi rivelatisi non solo infondati, ma pre-costruiti dolosamente dagli accusatori. Il 30 ottobre 2015, 25 consiglieri si dimisero in giunta e davanti a un notaio ponendo fine alla giunta Marino. Così Matteo Renzi e il Pd regalarono il Comune ai 5 Stelle.

Praticamente, dei sei sindaci riferibili in qualche modo al “modello Roma” proposto dalla sinistra, solo Ugo Vetere (foto) ha portato a termine il suo mandato: Argan lo ha interrotto nel 1979 per motivi di salute; Petroselli nel 1981 per morte improvvisa; Rutelli nel 2001 per guidare la coalizione di centrosinistra; Veltroni nel 2008 dopo aver assunto la segreteria del Partito democratico; Marino nel 2015 perché sfiduciato dal suo partito.

Virginia Raggi (foto Ansa di Ettore Ferrari) 

Marino fu eletto con il 64% dei voti; Virginia Raggi con il 67%. Si tratta, dunque, di due sindaci spinti in Campidoglio da un forte consenso popolare. I problemi di Roma sono così complessi che anche un triunvirato composto da Roosevelt, Churchill e Stalin avrebbe stentato a risolverli. Difficile che ci potesse riuscire una sindaca inesperta, accerchiata da un tourbillon di improbabili assessori, ragionieri generali, capi gabinetto, top manager dell’Ama, dell’Acea, dell’Atac, pressata da migliaia di dipendenti demotivati, impietosamente criticata dai media ostili, sfiduciata – secondo gli attuali sondaggi – da due terzi di quei cittadini che l’avevano votata quattro anni fa. Se diamo credito al Sole 24 Ore, che fornisce annualmente una scrupolosa classifica sulla qualità della vita nelle province italiane, scopriamo che venti anni fa Roma (dove città metropolitana e provincia coincidono) era al 21° posto della classifica e oggi è scesa al 32°. Scopriamo inoltre che i settori peggiorati sono “demografia e società” (sceso dal 54° al 59° posto); “ricchezza e consumi” (dal 4° al 29°); “ambiente e servizi” (dal 15° al 32°); “cultura e tempo libero” (dal 14° al 28°). Per quanto riguarda “giustizia e sicurezza” Roma era e resta a un disonorevole 101° posto. È invece migliorata nel settore “affari e lavoro” dove è risalita dal 40° all’8° posto. Così pure è al secondo posto in Italia per numero di abbonamenti a Internet; al terzo posto per numero di diplomati e laureati; al quarto posto per indice di trasformazione digitale; al decimo posto per numero di imprese in Rete.

Come ho ricordato in altre occasioni, nel 2030, cioè tra 9 anni, ci saranno nel mondo circa 600 città con più di un milione di abitanti, ma solo una quarantina potranno essere considerate “città-mondo”, cioè capaci di esercitare un’influenza planetaria come fanno già oggi Città del Vaticano o Cupertino. Per essere tra queste, Roma deve avere una grande idea, un colpo d’ala capaci di attirare risorse e aggregare intelligenze intorno a una missione e a un leader di altissimo livello. Al prossimo sindaco toccherà questa prova, determinante per il futuro postindustriale della città più famosa nel mondo. Gli occorreranno qualità personali (carisma, lungimiranza, integrità morale); qualità culturali (universalismo, sensibilità umanistica, scientifica e sociale, perfetta conoscenza di Roma dal punto di vista storico, urbanistico e socio-economico); qualità di leadership (visione strategica, esperienza politica e amministrativa, capacità manageriali, prestigio ed esperienza internazionale). Portare Roma al livello di città-mondo rappresenta una missione quasi impossibile perché ancora nel 2030 la città presenterà i punti di debolezza indicati da una recente indagine previsionale e quasi indelebili nel Dna dei romani: senso di rassegnazione; apatia; assenza di progettualità delle élite; carenze della macchina amministrativa e dei servizi pubblici; incapacità dei cittadini di scegliere una classe politica propulsiva, capace di aggregare le forze economiche e sociali intorno a un progetto credibile e attraente anche per i giovani; propensione a imboccare scorciatoie devianti nei piccoli e grandi affari; eccessive disuguaglianze socio-economiche e conseguenti forme di conflittualità; carenze delle strutture formative, abitative, sanitarie e della sicurezza; scarsa imprenditorialità.

Per fortuna, a questi punti di debolezza possono essere contrapposti altrettanti punti di forza: bellezza, apertura al mondo, tolleranza, inclusività, posizionamento geografico, qualità della vita; storia millenaria ammirata in tutto il pianeta; popolazione studentesca di provenienza nazionale e internazionale; sede del Vaticano e compresenza di ambasciate, consolati, centri culturali di tutti i Paesi del mondo; vivacità del terzo settore; élite giovanili sia nelle zone marginali che nel centro; fermento d’iniziative; protagonismo della società civile; proliferazione delle piccole imprese; brand culturale e creativo; sede delle principali aziende di servizi del paese, dall’energia ai trasporti e alle comunicazioni; massima attrazione turistica; imprenditorialità femminile. Insomma il prossimo sindaco – se ne fosse consapevole e capace – potrebbe fare di Roma, grazie alla sua storia e ai suoi pregi ma anche ai suoi difetti, il luogo privilegiato per il flaneur postindustriale, autoctono o turista, per il Baudelaire del XXI secolo che, delegato il lavoro ai robot e all’Intelligenza artificiale, ormai ricco di tempo libero, di conoscenze, informazioni e curiosità, desidera abbandonarsi all’esplorazione disincantata di quello che Hofmannsthal chiamava “paesaggio fatto di pura vita”.

(da “il Fatto quotidiano” del 4 settembre 2021)

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