di ENNIO SIMEONE – Non ci sarà bisogno del messaggino via web #paolostaisereno per sloggiare Paolo Gentiloni. Matteo Renzi, nascondendo la faccia dietro la maschera del pentito (“al referendum non abbiamo perso, abbiamo straperso”) e giurando di voler passare dall’io al noi (non maiestatis ma coinvolgente), ha dato all’Assemblea nazionale del Pd due notizie molto precise. La prima: niente congresso del partito a breve scadenza perché non ho alcuna intenzione di dimettermi da segretario; la seconda: voglio nuove elezioni al più presto per ritornare a Palazzo Chigi.
L’attuale inquilino del medesimo palazzo, Paolo Gentiloni, costretto a sedersi accanto a lui e ad Orfini al tavolo della presidenza dell’assise, è avvertito. E’ un preavviso di sfratto in piena regola, accompagnato, nella grande sala dell’hotel Ergife, dalle note dell’inno di Mameli seguìto da quello di Checco Zalone (“La prima repubblica”, che nel film “Quo vado” irrideva alle manie e alle protezioni del “posto fisso”, anche in politica). Renzi ha persino già pronta la scorciatoia, offertagli dalle invocazioni “voto subito!” di Salvini e della Meloni: niente ritocco della legge elettorale “Italicum” (che lui e Maria Elena Boschi avevano definito la migliore del mondo, che altri paesi europei ci avrebbero copiato) ma adozione del “Mattarellum”, proposto, per di più, dalla sempre geniale minoranza del Pd.
Questo è il succo, al di là delle varie elucubrazioni di rito di alcuni sedicenti capi corrente esibitisi al microfono nell’Assemblea nazionale di quel partito. Che si è conclusa con la consueta votazione plebiscitaria sulla relazione del capo redivivo: 481 sì, 2 no e 10 astenuti. Da segnalare solo un piccolo particolare: i membri di quel consesso sono 1200, i presenti erano appena un po’ più di un terzo. Due terzi l’hanno disertata. Avevano da fare le compere di Natale. O si sono “strapersi” per strada.
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