di SERGIO SIMEONE* – Dopo le elezioni europee Salvini, forte dello straordinario successo della Lega, somiglia molto al lupo di Fedro. Il lupo della favola andava alla ricerca di pretesti per divorare l’agnello e Salvini va, anche lui, alla ricerca di pretesti per divorare definitivamente Di Maio passando prima per una crisi del governo Conte e poi per elezioni politiche anticipate. Salvini ha fretta di realizzare questo obiettivo, prima di affrontare il varo della finanziaria e l’inevitabile scontro con la Commissione europea che potrebbero scoprire il bluff delle nuove mirabolanti promesse che va facendo agli italiani.
Contemporaneamente c’è un altro politico, che si sta arrovellando in questi giorni per far prendere slancio alla formazione politica di cui è leader, Nicola Zingaretti. Il Pd ha dimostrato, nell’ultima tornata elettorale, per il momento solo di essere ancora in vita, non certo di essere in grado di incrociare i guantoni sul ring politico dopo il KO del 4 marzo 2018. Numerose, infatti, sono le difficoltà che il Partito deve superare per essere davvero competitivo. Ma quella più seria è forse la sua debole presenza nel Mezzogiorno: essere stato scavalcato nei suffragi non solo dai 5 stelle, ma addirittura da quel partito che per anni ha trattato le popolazioni meridionali con un disprezzo molto prossimo al razzismo, è una offesa sanguinosa per un partito che ha nel suo Pantheon figure come Enrico Berlinguer, Giuseppe Di Vittorio e Aldo Moro.
Ebbene, c’è ora sul tappeto un tema che è apparentemente un buon pretesto nelle mani della Lega per provocare la crisi di governo, ma che può invece divenire per il Pd un’ottima occasione per far scoppiare nelle mani di Salvini una seria contraddizione: l’autonomia regionale differenziata. Salvini è chiaramente pressato da Zaia e Fontana perché venga portato in Parlamento ed approvato l’accordo Stato-Regioni approntato da Erika Stefani, ministro leghista per le autonomie. Ma come può il leader leghista, dopo aver dato carattere nazionale al suo partito e dopo essere riuscito a “sfondare” nel Mezzogiorno, a far ingoiare ai suoi elettori meridionali un provvedimento che avrebbe come esito l’indebolimento della sanità e della scuola del sud?
Su questo tema, tra l’altro, c’è grande fermento nel mondo accademico meridionale. Dopo la ferma denuncia del Direttore dello Svimez, Adriano Giannola, e le ben argomentate prese di posizione del costituzionalista Massimo Villone e del rettore della Federico II Gaetano Manfredi, il mondo universitario è tutto schierato in maniera compatta contro il progetto leghista. Occorre solo che un soggetto politico faccia uscire la elaborazione degli intellettuali dal chiuso delle aule e dei convegni e la faccia divenire informazione per la gente e motivo di mobilitazione e di lotta. E questo soggetto può essere il Pd.
Sappiamo che anche il Pd deve superare al proprio interno resistenze e contraddizioni (basti pensare che tra le Regioni richiedenti l’autonomia differenziata c’è anche l’Emilia Romagna, governata dal Pd Bonucci, mentre il sindaco di Milano Beppe Sala ha invece mostrato di comprendere perfettamente che un’autonomia differenziata che impoverisca il sud sarebbe un danno anche per il Nord).
Ma qui si tocca un punto nodale. Zingaretti ha molto a cuore l’unità del suo partito. Ma l’unità non può essere (prendendo in prestito una felice metafora di Hegel) la notte in cui tutte le vacche sono nere. Non si può fondare cioè sulla scelta di non scegliere. E in questo caso bisogna scegliere di lottare contro chi minaccia di rompere la coesione nazionale ledendo i diritt fondamentalii delle popolazioni meridionali.
*Sergio Simeone, docente di Storia e Filosofia, è stato anche dirigente del sindacato Scuola della Cgil
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