di FEDERICO BETTA –
Che cosa accomuna tutte le guerre in ogni spazio e in ogni tempo? Che cosa unisce le tragedie su ogni fronte conosciuto?
A una domanda così universale provano a rispondere alcuni testi di uno dei più noti drammaturghi romeni, Matei Vișniec. Nato nel 1956 e vissuto sotto il regime comunista di Ceaușescu fino al 1987, l’autore ha scritto diverse opere che hanno circolato nell’underground letterario rumeno senza però poter essere messe in scena a causa della censura. Trasferitosi in Francia, Vișniec ha continuato a scrivere, anche poesia e pezzi di giornalismo, fino al suo ritorno in Romania dove, finita la dittatura, è diventato uno degli autori più rappresentati in patria.
Fino al 29 aprile, al Teatro dei Documenti di Roma, è possibile vedere Caffè Salter/1918, un originale allestimento scenico ad opera di una coppia di bravi autori (Francesco Polizzi e Cristian Angeli) di alcune delle opere di Vișniec. In occasione della prima abbiamo avuto l’occasione di intervistare Cristian Angeli che ci ha raccontato com’è nato il progetto.
Com’è nata l’idea di mettere in scena i testi di Vișniec?
Lo scorso anno sono stato in Romania e dopo aver casualmente conosciuto la storia di Matei Vișniec ho cercato di recuperare i pochi testi tradotti in italiano, e quelli più numerosi tradotti in francese. Quando mi sono imbattuto nella raccolta Attenzione alle vecchie signore corrose dalla solitudine, del 2003, ne ho subito capito le potenzialità e ho deciso di proporre la messa in scena a Francesco Polizzi. Per questo tipo di narrazione, che rivela una grande musicalità e una composizione drammaturgica molto fisica, ho pensato che Francesco, col quale collaboro da diverso tempo, fosse il regista ideale e l’attore giusto per il ruolo principale, nonché un compositore adatto al tipo di atmosfera che ho respirato nelle opere.
La raccolta è formata da brevi testi, che l’autore chiama “moduli teatrali da comporre” e che offre alla messa in scena nella maniera più libera, come fossero pezzi di uno specchio rotto che nessuno ha mai visto intero.
Dopo aver scelto quattro parti, ho steso un copione che fosse in grado di unire i diversi frammenti in un’opera omogenea, mantenendo la visionarietà dell’autore. In accordo con Francesco, grazie a una serie di collegamenti intratestuali che costruiscono una sorta di punteggiatura emozionale, abbiamo mantenuto l’unitarietà della prospettiva di Vișniec che, anche quando spazia dal grottesco al melodramma simbolista, riesce sempre a mantenere un carattere distinguibile e unico.
Come hai collaborato con Francesco Polizzi che intreccia musica e testo, coreografia e movimento scenico?
Francesco, da protagonista del testo, aveva bisogno di un regista che gli facesse da specchio per condurlo serenamente nel percorso della messa in scena. In generale però, io mi sono occupato maggiormente di due moduli, quelli più legati al simbolismo romantico, mentre Francesco ha lavorato di più sulle coreografie sceniche e sulla scrittura delle musiche e delle canzoni originali.
Abbiamo entrambi focalizzato il nostro impegno sul tema della memoria e sulla necessità di mantenerla viva per poter vivere i fragili tempi del presente. Con questo punto di riferimento forte, abbiamo intrecciato le quattro storie di Vișniec cercando di costruire continui rimandi tra la memoria privata e la memoria pubblica, la memoria di una nazione. Si intrecciano quindi sulla scena la storia del Generale che si innamora della giovane proprietaria del Caffè Salter e le parole dei morti caduti in guerra che richiedono riconoscimento civile e militare, portando lo spettacolo a toccare interrogativi quasi metafisici.
Il testo, così come lo spettacolo, non parla di una guerra in particolare. Anzi, sembra che le parole dei protagonisti possano riferirsi ad ogni guerra in ogni tempo e spazio. Come avete lavorato sulla vostra messa in scena, che ha dei rimandi alla nostra storia nazionale, mantenendo il suo carattere archetipale?
Nei diversi testi di Vișniec, il Generale cambia nome. E anche gli altri personaggi hanno nomi diversi nelle diverse storie, rimandando ad ambienti culturale o atmosfere riconoscibili. Ma già nell’opera del drammaturgo rumeno ogni rimando, ogni accenno al concreto è sempre e solo un’allusione e non c’è mai un riferimento forte e definitivo a qualche evento specifico, a qualche luogo in particolare. L’autore ha costruito una sorta di immaginifico ovunque possibile, senza scadere mai in un racconto qualunquista. Nel senso che quello che abbiamo percepito subito nei testi, e abbiamo cercato di portare sulla scena, è proprio il potere dell’allusione. Non volevamo che andasse bene qualsiasi cosa, ma piuttosto volevamo creare l’atmosfera emozionale di un non luogo molto preciso, che per noi è stato la grande guerra di trincea del nostro novecento. In scena abbiamo riportato la struttura poco realistica e metafisica senza perdere il potere del rimando alla nostra storia.
Il gruppo di attori e attrici è molto affiatato anche se provengono da storie e esperienze diverse. Come avete lavorato con loro?
É stato molto bello e interessante collaborare con attori e attrici così diversi. Mi preme ricordare i loro nomi perché davvero è stato un lavoro di gruppo che si è avvalso delle specifiche capacità di ognuno: Maria Lomurno, Marisol Gabrielli, Francesca Dinale, Roberto Luongo, Andrea Lami, Daniel Zerbini, Pietro Paolucci, Serena Cospito, Anita Masi. Già che ci sono non voglio dimenticare nemmeno il lavoro della nostra produzione, Eranos, e l’instancabile organizzatrice Laura Pagliani. Tutte e tutti stanno dando il massimo per rendere i testi di Vișniec più vitali e pulsanti, ma allo stesso tempo lirici e astratti. Faccio solo un esempio specifico per chiarire il nostro approccio con gli attori: Fancesca Dinale è una ragazza giovanissima, ha appena compiuto vent’anni, e in scena si trova a interpretare una cecchina. Non impersona però una timorosa ragazzina che si trova un fucile in mano e non sa come usarlo, ma è una guerrigliera che insegna a sparare al suo collega più anziano. Ecco, grazie a Francesca abbiamo rivisto la tragedia di una studentessa qualunque che durante un conflitto perde la testa e diventa il carnefice più feroce. Solo con i suoi vent’anni, con la sua inesperienza e la sua ingenuità, Francesca ci ricorda molti ragazzi che hanno combattuto ad esempio nella guerra in Bosnia, così come le guerrigliere curde, che con decisione prendono un Kalashnikov e si trovano a combattere. Sono tutti ragazzi che per un qualche motivo si trovano a sparare ad altri esseri umani… forse per noi è un comportamento poco comprensibile, ma è un dato di fatto e noi abbiamo cercato di raccontarlo.
Come vengono accolte le opere di Matei Vișniec in Italia?
Rispetto al successo che ha avuto e ha tutt’ora in Francia, direi che non c’è grande attenzione. È un autore complesso, denso, pieno di rimandi e significati. Un autore che ha avuto la sfortuna e allo stesso tempo la fortuna di scrivere in una dittatura, sotto un regime che gli ha imposto un simbolismo e un tono grottesco che gli danno una forza unica. Ci auguriamo che questo nostro lavoro possa contribuire a far conoscere le sue bellissime opere e che magari qualche editore prenda il coraggio di tradurre altri suoi testi in Italiano.
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