di SERGIO SIMEONE* – Molti ritengono, io credo a ragione, che Putin sia un nostalgico della Unione Sovietica, non in quanto regime politico, ma come grande potenza mondiale, divenuta, dopo il crollo del 1991 e la indipendenza conquistata dai suoi ex Paesi satelliti, potenza regionale. Il suo progetto, pertanto – che è poi alla base delle sue iniziative belliche in Cecenia, in Georgia, in Crimea, in Siria ed in Libia, della riduzione a stato vassallo della Bielorussia e, infine, della invasione dell’Ucraina – è la ricostituzione dell’impero sovietico ed il recupero del suo ruolo di protagonista sulla scena mondiale.
Ma se Putin avesse analizzato con attenzione le ragioni per cui è crollata l’Unione Sovietica non si sarebbe cacciato in una situazione che ricostituisce le cause per cui questo regime è crollato.
Io ritengo, infatti, senza affrontare una disamina di tutte le ragioni che hanno portato alla fine dell’esperienza sovietica, che la causa principale del crollo sia stata il fatto che lo Stato fondato da Lenin abbia tentato di competere con gli Stati Uniti ed i suoi alleati nella corsa agli armamenti e in quella alla conquista dello spazio, impegnandosi in uno sforzo economico che la sua gracile economia non era in grado di sostenere. L’Unione Sovietica, insomma, nel tentativo di reggere il confronto contro un avversario che aveva una disponibilità enormemente superiore, è scoppiata come la rana di Esopo, che si gonfiava per diventare grande come un bue.
La questione si ripropone, mutatis mutandis, con l’invasione dell’Ucraina. La Russia deve sostenere una guerra contro un Paese, che è certo molto più povero, ma è sostenuto da un insieme di Paesi (Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Unione europea) che dispone di una quantità di risorse enormemente superiore. Basti pensare, per capirci, che già l’Italia, da sola, ha un PIL superiore a quello della Russia.
Certo, se a Putin fosse riuscito il blitzgrieg del 24 febbraio e fosse riuscito a conquistare in pochi giorni Kiev, a spazzare via Zelensky e ad insediare un governo presieduto da un suo fantoccio avrebbe creato una situazione difficile da modificare.
Ma il blitz non è riuscito, l’esercito russo ha dovuto mollare la presa su Kiev e i tempi della guerra si sono allungati. La tenuta inaspettata dell’esercito ucraino ha dato il tempo ai Paesi occidentali di organizzare la fornitura delle armi ripetutamente richieste da Zelensky. A questo punto il fattore economico acquista un peso probabilmente determinante: gli ucraini potranno ricevere armi sempre più moderne ed efficaci per rimpiazzare quelle distrutte o divenute obsolete; i russi invece cominceranno ad avere difficoltà a rimpiazzare le armi perdute. Ad aggravare la situazione economica della Russia si sono aggiunte ovviamente le sanzioni economiche. Chi ha compreso la drammatica situazione economica in cui si trova la Russia è la direttrice della Banca Centrale che ha tentato di mettere in guardia Putin senza riuscirci.
Ala luce di questo possibile rovesciamento dei rapporti di forza tra i due contendenti acquistano significato tutti quei comportamenti dei leader occidentali (dai toni aspri di Biden nelle sue uscite pubbliche e alle recenti dichiarazioni bellicose di Borrell e di Michel) che sembrano puntare più alla vittoria su Putin che al negoziato. La speranza è che Putin si accorga di essere sull’orlo del baratro e diventi più conciliante e che Zelensky ed i leader occidentali non pensino, a loro volta, di poter stravincere, ponendo fine alle sofferenze del popolo ucraino e di quello russo.
*Sergio Simeone, docente di Storia e Filosofia, è stato anche dirigente del sindacato Scuola della Cgil
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