“L’esorcista”, horror contemporaneo nella trasposizione teatrale di Alberto Ferrari al Teatro Olimpico di Roma

di ELENA VANNI

Dopo l’apertura di stagione al Teatro Nuovo di Milano, è andata in scena al Teatro Olimpico di Roma dal 12 al 17 novembre L’esorcista, trasposizione teatrale del noto film di William Friedkind.

È possibile riuscire a portare il terrore e la suspense a teatro? È possibile portare un film cult in una trasposizione teatrale senza deludere il pubblico? Dopo la visione de L’esorcista, la risposta è sì, se l’operazione viene condotta con intelligenza e grande sensibilità, come ci ha dimostrato lo spettacolo di Alberto Ferrari.

Ferrari è un regista che spazia dal cinema al teatro, inizia la sua carriera come assistente regista al Piccolo Teatro di Milano, con il duo comico di Ale e Franz ha collaborato in teatro, televisione e cinema, ha diretto Distretto di Polizia, a breve uscirà il suo ultimo film Un figlio di nome Erasmus, con Luca e Paolo, Daniele Liotti e Ricky Memphis. Una lunga esperienza cinematografica non secondaria, che si percepisce tutta in questo spettacolo che mescola sapientemente teatro e cinema.

Partiamo dalla storia, che viene rispettata lungo tutti i suoi pilastri fondamentali. Regan è una bambina di dodici anni che vive con la madre, una star del cinema, affettuosa, ma sempre in lotta tra sentimenti e impegni di lavoro. Il padre è assente, la coppia ha divorziato da poco, la figlia subisce e si fa carico della mancanza di questa figura: ci sono tutti gli elementi che rendono lo show una pièce perfettamente contemporanea e specchio dei nostri tempi. In questa situazione molto delicata, interviene, metafora e simbolo di un malessere interiore, una presenza che si impossessa della protagonista, che è appunto, come lei stessa dice, il diavolo in persona. E qui forse si gioca una delle prime scommesse vinte dello spettacolo: l’approfondimento psicologico della storia, il muoversi sulla linea sottile che ci fa chiedere continuamente cosa sia vero e cosa no, che forma diamo a quel male che, come dice il prete incaricato dell’esorcismo, “è molto più profondo e meno visibile, della messa in scena che il diavolo mette in atto”.

Fede e scienza, inconscio e razionalità, visioni e analisi mediche, lo spettacolo alterna intelligentemente riflessioni su principi e convinzioni, sui piani valoriali in gioco e la nostra capacità di dominare o meno le pulsioni più irrazionali.

Anche dal punto di vista della messa in scena lo spettacolo è in grado di costruire un mondo che alterna, con una maestria sorprendente, ambienti e situazioni distanti tra loro. Un montaggio e una regia, che si rifanno chiaramente al linguaggio filmico, conducono il pubblico tra la camera di Regan, il salotto della casa, un confessionale, una soffitta abbandonata e un cimitero. Una macchina scenica costruita con intelligenza, nella quale si muovono attori e attrici tutti perfettamente in parte, tra i quali spicca la protagonista, interpretata dalla bravissima Claudia Campolongo (foto), che riesce a dar vita ad una Regan ingenua e inquietante. L’uso incisivo di effetti stroboscopici, luci e suoni, come la voce del personaggio del diavolo che pare spostarsi nello spazio fino a circondare il pubblico, contribuiscono a creare tutta la sorpresa e il terrore che hanno fatto la fama del film.

L’esorcista sembra dirci che quello di cui abbiamo più paura non è ciò che sta davanti a noi, ma quello che non vogliamo o riusciamo a vedere. Ne risulta uno spettacolo che è un sano atto di esorcismo nei confronti della parte più nera di ognuno di noi.

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