“Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare”: sull’onda dei versi di D’Annunzio i pastori del Cavaliere lasciano gli stazzi di Arcore e vanno verso il mare, alla ricerca di approdi accoglienti per le loro fortune politiche, mentre pare di udire in sottofondo una voce che ripete l’ultimo verso di quella celebre poesia: “Ah, perché non son io co’ miei pastori?”
C’è una transumanza nel nostro parlamento che, in proporzione, è paragonabile alla migrazione che dall’Africa e dal Medio Oriente si sta riversando verso l’Europa. Gruppi che si sciolgono e si ricompongono, parlamentari che si trasferiscono nell’emiciclo mimetizzandosi dietro nuove sigle, impronunziabili per le parole che compongono l’acronimo. Manca solo che si facciano accompagnare da figlioletti o nipotini da esibire, come i poveri profughi alle frontiere, per impietosire gli elettori e guadagnarne la comprensione: “Tengo famiglia”.
Sono tutti ex “nominati”, in gran parte arrivati sugli scranni di Camera e Senato solo in cambio della fedeltà promessa al capo prima delle elezioni e perciò da lui sottratti al rischio di un giudizio e della scelta da parte degli elettori. Si sentono debitori di fiducia, dunque, nei confronti di una sola persona e non di tanti anonimi cittadini a cui dar conto.
Sono i figli di una democrazia malata, che una nuova legge elettorale associata a una pasticciata riforma istituzionale promette di guarire togliendole l’ossigeno del voto popolare.
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