Come era prevedibile, l’attentato compiuto ieri al lungo ponte che collega la Crimea alla Russia – implicitamente rivendicato da esponenti ucraini (o comunque accolto con dichiarazioni di compiacimento e con beffardi auguri di buon 70° compleanno a Putin) – è stato seguito immediatamente, all’alba di oggi, da una violenta, sanguinosa «spedizione punitiva» della Russia contro Kiev, con morti, feriti e ulteriori devastazioni nella capitale causati dal lancio, dalla Russia, di ordigni esplosivi e velate minacce di far ricorso all’ potenziale atomico.
Il prezzo pagato dall’Ucraina in vite umane, in distruzioni di edifici civili e in minacce di inasprimento del conflitto era preventivabile e rappresenta la prova che l’allarme di quanti temono per la pace non solo di questa area ma di tutta l’Europa e del resto del mondo è più che motivato.
E quindi è ancor più motivato l’appello a entrambi i contendenti (il presidente della Russia, Vladimir Putin, e il presidente dell’Ucraina, Zagrebelsky) a cercare la via di un accordo di pace nell’interesse innanzitutto di entrambi i paesi, ma anche nell’interesse dell’Europa e degli altri paesi confinanti, ma in realtà di tutto il mondo.
E questo è quanto sta ripetendo, inascoltato, da mesi, con angoscia e lucida razionalità, Papa Francesco rivolgendosi non soltanto ai due contendenti, ma anche ai capi di stato degli altri paesi, ricordando a chi dissente che le trattative di pace debbono intercorrere proprio tra coloro che sono in conflitto, ciascuno rinunciando ad alcune sue rivendicazioni o pretese territoriali in nome della serenità per tutti i popoli. Quindi mettendo da parte slogan come quello che ha ancora una volta ripetuto il leader ucraino Zagrebelsky, secondo il quale non si può trattare fino a quando a capo della Russia ci sarà Putin, dimenticando che le trattative non sono importanti tra persone che si rispettano e vivono in pace tra loro ma tra avversari che si combattono, ciascuno ammorbidendo un pezzo delle proprie ambizioni, nel nome del ristabilimento della pace.
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