di ENNIO SIMEONE – “Stallo”. Questa parola, usata dal presidente Mattarella per sintetizzare l’esito del secondo giro di consultazioni per la formazione del governo, ha fatto molto discutere quei commentatori politici che si aggrappano a qualunque pretesto per tentare di dire qualcosa di nuovo sulle avvilenti schermaglie in corso dal 5 marzo tra gli esponenti dei vari partiti nelle marce a piedi da un palazzo romano all’altro per farsi seguire da nugoli di cronisti con i microfoni protesi verso l’ultima variante della loro solita formuletta.
“Stallo” è termine inusuale, non protocollare per un capo dello Stato. E’ vero. Infatti se si va a cercarne il significato nei vocabolari, la prima definizione è la seguente: «Sedile di legno con braccioli e alto schienale, spesso intarsiato, allineato ad altri simili a formare un ordine di posti in una riunione solenne». Quindi siamo nell’imminenza della assegnazione del seggio da presidente del Consiglio dei ministri? Niente affatto: quello da prendere in considerazione è il significato traslato della parola: «Stallo: nel gioco degli scacchi situazione che si verifica quando il re muovendo finirebbe sotto scacco e tuttavia non si può muovere alcun altro pezzo, per cui la partita viene dichiarata patta». Da qui la versione figurata: «Situazione ferma, bloccata. Esempio: uno stallo nelle trattative».
E allora proviamo ad applicare la versione figurata alla scena politica italiana del momento. A chi tocca la prossima mossa per superare lo stallo? A Mattarella no, perché è arbitro, non giocatore? E allora tocca a uno dei due “vincitori-non-vincitori” delle elezioni, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Ma benché il loro successo elettorale sia stato molto forte, nessuno dei due ha veramente vinto perché nessuno di loro ha la maggioranza assoluta in entrambe le Camere per poter garantire al capo dello Stato di avere la fiducia a un suo governo.
A questo punto la mossa decisiva spetta inevitabilmente al terzo giocatore, il Pd, che deve uscire dalla posizione pilatesca e perdente, al limite della irresponsabilità, tenuta finora. E assumersi la responsabilità e l’onere di fronte al paese di consentire la formazione di un governo, anche senza entrare a farne parte, come 40 anni fa fece il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer, consentendolo all’avversario, al democristiano Giulio Andreotti. Poiché Di Maio è l’unico ad avergli offerto questa opportunità, per di più coerentemente con il fatto che una grossa fetta degli elettori del Movimento Cinquestelle proviene dalle file dell’elettorato Pd, la mossa per “uscire dallo stallo” tocca a questo partito. Che forse prenderebbe coraggio e potrebbe uscire dalla squallida posizione del “tanto peggio tanto meglio” se Mattarella affidasse un incarico a Di Maio in quanto capo del partito più votato il 4 marzo, visto che la cosiddetta coalizione di centrodestra in realtà non esiste, anzi vive di sgambetti quotidiani tra Berlusconi e Salvini. Insomma Mattarella dovrebbe avere quel coraggio che cinque anni fa, a parti invertite, non ebbe Napolitano nei riguardi di un altro “vincitore-non-vincitore”, l’allora segretario del Pd Pierluigi Bersani, benché il M5s trinariciuto di allora fosse ben diverso da quello ben più duttile di oggi. Altrimenti la parola stallo rimarrebbe ancorata alla sua definizione letterale: un sedile con braccioli e schienale alto. E niente di più. Anche se si trovasse in una autorevole sala del Quirinale.
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