di ENNIO SIMEONE – Rinviata di una settimana a causa della concomitanza con l’esito del referendum sulla Brexit, la riunione della Direzione nazionale del Pd, convocata per una analisi del risultato elettorale amministrativo culminato con la cocente sconfitta nei ballottaggi del 19 giugno (in 19 su 20 il Pd è stato sconfitto dai Cinquestelle), si è svolta ieri pomeriggio. Ma il segretario Matteo Renzi nella sua lunga introduzione, come nella altrettanto logorroica conclusione, anziché fare una analisi meditata e argomentata di quel disastroso risultato, lo ha liquidato come un episodio congiunturale, di carattere locale, e cercando di oscurarlo dietro gli episodi di carattere internazionale che in questi giorni hanno angosciato il mondo (dall’attentato di Dacca alla Brexit). Anzi li ha usati cinicamente per sminuirne il valore e addirittura per tentare di far sentire in colpa i rari contraddittori ai quali è stata data la parola.
Questa furbesca operazione è servita a Renzi come trampolino per scavallare la sconfitta elettorale e rilanciare il ricatto in vista del referendum sulla riforma costituzionale (comicamente da lui definita la “più grande riforma della storia”, quando si tratta forse della più grande porcheria istituzionale concepita in epoca repubblicana) . Fino a ieri questo ricatto consisteva nel minacciare il proprio ritiro dalla vita politica se prevarrà il No in quel referendum; ma ora – sia per i pressanti consigli dei suoi sostenitori, come Napolitano, sia perché è consapevole che la recente sconfitta elettorale è principalmente conseguenza della crescente disistima nei suoi confronti e nei confronti della sua politica – ha alzato la posta del ricatto ed ha aumentato la platea dei ricattati, affermando che una vittoria del No provocherebbe lo scioglimento del parlamento. Cioè: tutti a casa, sia voi deputati e senatori del Pd, sia voi deputati e senatori degli altri partiti, alleati e avversari, se non vi date da fare per far vincere i Si. E dopo, se l’obiettivo non sarà raggiunto, scordatevi la candidatura nel nuovo parlamento.
Risultato: la mozione della minoranza del Pd che proponeva (cosa ovvia in un partito che si dà il titolo di “democratico”) di dare libera cittadinanza nel Pd ai sostenitori del No come a quelli del Sì è stata respinta con soli 8 voti a favore.
Si è consumata così la Grande Schifezza di un partito che è diventato ormai una somma di comitati elettorali al servizio di un segretario-padrone, e che ha perso per strada un altro pezzo: Fabrizio Barca si è dimesso da quella commissione-farsa che Renzi aveva inventato per “studiare la riorganizzazione del partito”. Barca ha abbandonato per constatata inutilità, soprattutto dopo che Renzi ha detto che considera “lunare” la richiesta che vengano separate le cariche di segretario di partito e di capo del governo, e lo ha ribadito con la solita arroganza: “Se mi volete far fuori chiedete un congresso e vincetelo”. Forse ha dimenticato che la stessa frase, più o meno, l’aveva rivolta Piero Fassino nel consiglio comunale di Torino alla sua oppositrice Chiara Appendino. Allora Fassino era sindaco. Oggi il sindaco è Chiara Appendino.
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