di STEFANO CLERICI – Troncata senza se e senza ma, in diretta tv, l’ipotesi di un qualsiasi dialogo con i Cinque Stelle, il Vangelo secondo Matteo si riapre al primo capitolo: la riforma istituzionale. Quale programma comune per combattere la povertà, quale taglio di privilegi e tasse, quale ritorno dell’articolo 18? Io – dice Matteo – il Verbo ve lo avevo dato, ma voi, con il voto del referendum del 4 dicembre di due anni fa, l’avete trattato come i porci con le perle. Tuttavia, poiché sono misericordioso, vi offro la possibilità di rimediare, facendo un governo che faccia giustizia del bicameralismo perfetto. Giustissimo. Se non fosse che dimentica – o finge di dimenticare – quello che fu allora e quello che fu dopo.
Cominciamo con lo “spacchettamento”. In tanti, quando Matteo Renzi mise in moto la macchina del referendum istituzionale, gli chiesero, quasi implorandolo, di “spacchettare” i quesiti, di far sì che sulla scheda ci fossero più domande alle quali rispondere con un sì o con un no. Non c’era bisogno di essere Einstein per capire che, ad esempio, sul fatto che una sola Camera fosse abilitata a dare la fiducia o che il Cnel dovesse sparire o che il numero dei parlamentari andasse ridotto, la gran parte degli italiani sarebbe stata d’accordo, mentre sulla creazione di un Senato ridotto a un “dopolavoro” di sindaci o consiglieri, per di più nominati e non eletti, avrebbe fatto storcere la bocca a parecchi elettori. Ma lui niente. Voleva il plebiscito. E l’ha avuto. Ma contro.
Ebbene, che cosa ha fatto dopo quella sonora sberla? Ha fatto spallucce, si è dimesso sì da presidente del Consiglio, ma invece di eclissarsi – come del resto ripetutamente promesso – ha continuato a dettar legge fuori e dentro il partito, nella colpevole illusione che quel 40 per cento di sconfitti al referendum fosse il “suo popolo” dal quale ripartire verso nuovi successi, magari a cominciare dalle amministrative del giugno 2017. Arrivano le amministrative e arriva un’altra sonora sberla, con la perdita di altre piccole e grandi città, dopo le batoste di Roma e Torino.
E lui che cosa ha fatto dopo questa seconda sberla? Ha di nuovo fatto spallucce, continuando a dettar legge fuori e dentro il partito, nella colpevole illusione che quello che restava del “suo popolo” avrebbe presto ripreso la marcia verso nuovi successi, magari alle prossime politiche del marzo 2018. Arriva il 4 marzo e arriva un’altra sonora sberla, stavolta la più forte, che fa sprofondare il Pd ai suoi minimi storici.
E lui che cosa ha fatto dopo quest’ultima storica sberla? Ha fatto spallucce, si è dimesso sì da segretario, ma solo formalmente, continuando a dettar legge fuori e dentro il partito. Riuscendo a far perdere la pazienza perfino a un placido come Maurizio Martina, reggente del Pd, uno che quanto a pazienza non è secondo neppure a Giobbe. Evidentemente Matteo Renzi è convinto che quel “suo popolo”, ormai più che dimezzato, lo possa condurre verso nuovi successi, magari alle prossime elezioni anticipate da qui a qualche mese. E allora che farà? Che farà quando vedrà che il “suo popolo”, ma proprio tutto il “suo popolo” si potrà riunire comodamente solo in una piccola sala della Leopolda? E avanzerà pure qualche sedia?
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