di ENNIO SIMEONE – Esattamente quarant’anni fa, l’11 marzo del 1978, otteneva la fiducia delle Camere il IV governo Andreotti: un monocolore democristiano. La Democrazia cristiana, benché avesse ottenuto il 37% dei voti alle elezioni, non aveva la maggioranza assoluta, indispensabile per far nascere un governo. Fu il Partito comunista di Enrico Berlinguer a consentirne la nascita con l’astensione sia alla Camera sia al Senato. L’alternativa era rimandare gli italiani alle urne. Quella scelta apparve al Pci necessaria al paese, la più giusta e la più responsabile verso gli interessi della collettività. Il suo elettorato capì e condivise. E confermò in seguito il consenso a quel partito.
Oggi si presenta al Pd una situazione analoga, benché in un quadro politico più complesso e articolato, ma certamente non più difficile se paragonato alla forte contrapposizione e alla netta spaccatura a metà, anche ideologica, che c’era allora tra i due grandi partiti di massa.
Il problema però è lo stesso: come e a chi spetta evitare all’Italia una pericolosa paralisi istituzionale. Questo compito spetta in primo luogo al Partito democratico. Perché? Elenchiamone sinteticamente i motivi. 1. Perché il Pd ha governato ininterrottamente il paese negli ultimi cinque anni. 2. Perché il risultato di queste elezioni è (lo si voglia o no) la conseguenza delle scelte compiute in quei cinque anni di governo. 3. Perché il Pd ha scritto (Renzi&C) e poi (Gentiloni&C) ha imposto al parlamento, senza che potesse neppure discuterla e correggerla, una legge elettorale in contrasto con lo spirito della Costituzione e viziata da un meccanismo che ha deformato per molti aspetti il voto popolare e ha impedito agli elettori di scegliere tra i candidati coloro che a loro avviso erano meritevoli di rappresentarli in parlamento.
E ora non può sottrarsi alla regola «chi rompe paga». Deve e può rispettarla. Perché deve lo abbiamo detto. Perché può lo dicono i numeri: né la coalizione di centrodestra né il Movimento 5 stelle hanno, separatamente, i parlamentari sufficienti a garantire la fiducia a un governo. E il Pd non può sottrarsi alla scelta. Quale debba essere questa scelta (poi si discuterà della forma, dei modi, delle condizioni, della durata) lo hanno detto diverse analisi sui flussi dei votanti da uno schieramento all’altro: l’ingrossamento dei 5 stelle è avvenuto grazie alla migrazione di una grossa fetta di elettorato di centrosinistra, deluso dal Pd, verso quel Movimento. Ma ancor più efficacemente lo hanno detto quegli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco, ex elettori del Pd e ora elettori del M5s, che Lucia Annunziata nel suo programma domenicale su Rai3 ha messo a confronto in diretta con il presidente del Pd Matteo Orfini. Il quale – di fronte alle insistenze dei suoi interlocutori perché il suo partito dialoghi con il partito capeggiato con sorprendente abilità da Luigi Di Maio – purtroppo ha ripetuto, sia pur con tono più dimesso, il tetragono no pronunciato, con un misto di arroganza, menefreghismo, irresponsabilità e quasi infantile spirito vendicativo, il segretario dimissionario Matteo Renzi il giorno in cui ha annunciato le sue inevitabili dimissioni: «Quelli che hanno vinto le elezioni se lo facciano loro il governo! Noi faremo l’opposizione! Io farò il semplice senatore». Opposizione a un governo prima che nasca? Quella è una frase da cui traspare solo la voglia di fare un dispetto agli elettori: “muoia Sansone con tutti i filistei”.
In realtà dalle elezioni sono usciti solo due mezzi vincitori: Di Maio e Salvini. E un solo sconfitto: Matteo Renzi, cui va accomunato lo stuolo dei suoi purtroppo numerosi fedelissimi. Che però non hanno il diritto di trascinare nel disastro gli italiani. Anche perché il senatore di Lastra a Signa non è Sansone.
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