di DOMENICO MACERI* – “Hillary gioca la carta della donna, ma vi garantisco che se fosse un uomo non prenderebbe nemmeno il 5% dei voti”. La stoccata di Donald Trump alla Clinton subito dopo le primarie del Nordest reitera i suoi ben noti attacchi alle donne. Lo aveva fatto in tante occasioni, ma la ripresa del tema ha sorpreso alcuni analisti, soprattutto considerando la sua “nuova strategia” per rilanciarsi come figura “presidenziale”.
Il danno in campo femminile però è già fatto. Parecchi sondaggi di diverse agenzie ci dicono che sette donne su dieci vedono il magnate di New York in termini negativi. Essendosi anche alienati gli ispanici, gli afro-americani, i musulmani e tanti altri elettori americani che in un modo o nell’altro sarebbero imbarazzati da una presidenza di Trump, il ritorno alla misoginia ricalca la fossa che si è scavato all’elezione generale di novembre. Da uno scontro diretto con l’ex first lady, Trump uscirebbe sonoramente sconfitto (50 per cento Clinton, 39 per cento Trump).
Il voto delle donne (cioè il 53 per cento dell’elettorato americano) è ovviamente determinante. Nonostante la marcia indietro di Trump sul rispetto per le donne, gli insulti a figure femminili come Carly Fiorina, Heidi Cruz, moglie del suo ex avversario Ted Cruz, e Megyn Kelly, la giornalista di Fox News, lo contraddicono. Ma anche riferendosi alle donne in generale Trump le ha apostrofate come “maiali grassi, cani, sciattone, disgustosi animali”.
Nonostante questi atteggiamenti nelle primarie repubblicane di New York, stravinte da Trump (60 per cento), anche le donne gli hanno sorriso (59 per cento). Bisogna però ricordare che solo il dieci per cento degli elettori nello Stato di New York sono iscritti al Partito Repubblicano e che in generale si tratta di uno Stato che tradizionalmente vota per i candidati democratici alle elezioni presidenziali.
Ora il ritiro di John Kasich e di Cruz dall’agone elettorale dopo le primarie in Indiana ha letteralmente consegnato la nomination repubblicana a Trump. Ciò potrebbe spingerlo a cambiare strada e a rimangiarsi tutti gli insulti che in grande misura gli hanno guadagnato il successo politico fino a questo momento.
In effetti, un cambiamento radicale sulle donne, difficile ma non impossibile per Trump, potrebbe spianargli la strada alla Casa Bianca. Non avverrà, perché tradirebbe i principi repubblicani sulle donne, che Trump ha portato, come in altre aree, agli estremi.
Basti ricordare le prese di posizione del Partito Repubblicano contrarie all’aumento del salario minimo, al congedo familiare pagato, all’uguaglianza salariale fra uomini e donne, e all’aborto. Oltre alle sue ripetute asserzioni anti-femminili il magnate di New York ha anche dichiarato che le donne che abortiscono andrebbero punite.
Questa “guerra alle donne”, già tipica del Gop e “perfezionata” da Trump, ha indotto Tim Miller, ex consigliere di Jeb Bush, a prevedere una sicura sconfitta di Trump alle elezioni di novembre: Miller è arrivato ad affermare che la vittoria di Trump sarebbe possibile solo se il Gop riuscisse a “eliminare il suffragio femminile”.
Alcuni analisti hanno però suggerito un’altra strada per ridurre il gap con le donne: Trump potrebbe nominare una donna come sua vice, strategia già utilizzata – ma fallita – da Cruz, il quale aveva indicato Carly Fiorina come suo numero due.
La nomina del candidato alla vicepresidenza è ovviamente importante, ma, come ha anche ammesso Trump, non determinante, dato che gli elettori fanno la loro scelta guardando al candidato principale e non al numero due. Ciononostante Trump dovrà inventarsi qualcosa di traumatico per ribaltare le chiare indicazioni dei sondaggi, che predicono una sicura sconfitta. Che brucerà in modo particolare se a determinarla sarà una donna: Hillary Clinton già lo aspetta a novembre. L’ex first lady non cadrà nella trappola di Marco Rubio, il quale cercò di rispondere a Trump scendendo nel campo di fango del suo rivale. Invece, rispondendo all’insulto di ricevere voti solo per il fatto di essere donna, l’ex first lady ha ribattuto con fierezza dicendo che “se giocarsi la carta delle donne significa battersi per la sanità delle donne, per il diritto al congedo parentale, per la paga uguale per tutti, allora sì, mi gioco la carta delle donne».
*Domenico Maceri docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com)
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