OSSERVATORIO AMERICANO/ Elezioni di metà mandato, Trump dimezzato

di DOMENICO MACERI*

«In un certo senso io sono nella scheda elettorale». Queste le parole di Donald Trump in una chiamata telefonica a 200mila sostenitori una settimana prima delle elezioni di midterm. Il 45esimo presidente non era ufficialmente candidato ma con le sue azioni e parole ha fatto molto per intromettersi nell’elezione cercando una disperata conferma sul suo mandato.
La conquista democratica della Camera, come pure di una mezza dozzina di nuovi governatori democratici, rappresentano un rifiuto di Trump nonostante il fatto che i repubblicani abbiano mantenuto e persino ampliato la loro maggioranza al Senato. Il 45esimo presidente non ha però riconosciuto la sconfitta esaltando l’esito elettorale come una grande vittoria, coerentemente con la sua fantasiosa capacità di deformare o inventare la realtà.

È tradizione che nelle elezioni di metà mandato il presidente in carica perda consensi. Era successo anche a Barack Obama nel 2010. In generale, dopo due anni di presidenza, gli inquilini alla Casa Bianca spendono una buona parte del loro capitale politico e gli elettori li “puniscono”. Nel caso di Obama l’approvazione della riforma sanitaria, Obamacare, rappresentò questo prezzo politica. I repubblicani sono stati molto efficaci a demonizzare la riforma e hanno ottenuto ottimi risultati alle elezioni del 2010.

Nel caso di Trump qualcosa di simile è successo, ma oggi brucia di più perché le dinamiche hanno trasformato le elezioni in un referendum sul presidente in carica. Il 45esimo presidente avrebbe potuto seguire l’esempio di Obama, che nelle elezioni del 2010 rimase a bordo campo. Trump, da egocentrico qual è, ha deciso di sottomettersi alla prova. Infatti, due terzi degli elettori, nel bene e nel male, hanno considerato il 45esimo presidente come la ragione principale per recarsi alle urne in massa. Centodieci milioni di americani hanno votato, ossia il 47 per cento degli aventi diritto, cifra apparentemente bassa, ma in realtà molto più alta  delle altre elezioni di metà mandato (52 per cento democratici, 46 per cento repubblicani, 2 per cento altri). Per raggiugnere un livello simile bisogna risalire alle elezioni di metà mandato del 1966.

L’insistenza di Trump nel voler partecipare attivamente alle elezioni di midterm, credendo di poter fare la differenza, si è aggiunta alla strategia sbagliata di non porre l’accento sull’andamento favorevole dell’economia, scegliendo invece di rimanere nel recinto della campagna di odio soprattutto anti-immigranti.

Nelle  due settimane prima delle elezioni il 45esimo presidente ha fatto più di una dozzina di rally inveendo contro l’immigrazione illegale. In particolar modo ha tuonato contro la “minaccia di invasione” della carovana di migranti dell’America centrale che si sta dirigendo verso gli Stati Uniti. Per contrastarla Trump ha deciso di mandare più di diecimila soldati al confine per impedire loro di entrare nel Paese.

L’invasione dei migranti non è stata considerata tale da nessuno, eccetto la base elettorale di Trump. Persino un commentatore della Fox News, la rete televisiva amica di Trump, ha detto che non c’è nessuna invasione. Il 45esimo presidente ha però cercato di costruire un castello di sabbia, accusando i democratici di volere fare entrare i criminali nel Paese, senza però offrire alcuna prova. Nel fuoco della campagna le falsità di Trump sono aumentate notevolmente. Il Washington Post ha calcolato che Trump ha già fatto più di 6mila asserzioni false o fuorvianti.

Trump ha bisogno di nutrirsi dell’amore dei suoi sostenitori, ma ha anche una grande fiducia nel suo intuito politico, che lo ha portato alla Casa Bianca. Lo speaker della Camera, Paul Ryan, gli aveva telefonato suggerendo di abbassare i toni sull’immigrazione e di concentrarsi sulla economia in ascesa come cuore della campagna politica. Trump però ha deciso che la strada giusta per proteggere le maggioranze al Senato e alla Camera stava nella mobilitazione  della sua base, la quale richiede il solito Trump battagliero.

Ha sbagliato in parte, perché l’America continua a cambiare. Il 41 percento è già formato da membri di gruppi minoritari. Inoltre, le donne bianche istruite nelle periferie del Paese hanno cominciato ad abbandonare Trump e il Partito Repubblicano. Continuare a vedere le vittorie politiche basandosi sul numero sempre in riduzione dei bianchi, soprattutto i maschi, non promette futuri risultati politici positivi.

Il giorno dopo l’elezione Trump ha usato parole dolci verso i democratici offrendosi pronto a negoziare, congratulandosi con Nancy Pelosi, la probabile speaker della Camera a cominciare da gennaio 2019. Ciononostante nella conferenza stampa il giorno dopo le elezioni ha chiaramente dato l’impressione di non avere abbandonato il tono battagliero che ha indirizzato ai cronisti, accusandoli di domande  “improprie”. In particolar modo ha etichettato come razzista una domanda rivoltagli da Yamiche Alcindor della Pbs e ha attaccato Jim Acosta della Cnn, definendolo “una persona terribile” dopo un scontro verbale (foto). Per punirlo Trump gli ha fatto togliere l’accesso alla Casa Bianca. Gli scontri con i media sono all’ordine del giorno per Trump.

Ciononostante, la prova più chiara che si sente ferito dall’esito elettorale l’ha offerta con il licenziamento di Jeff Sessions, il ministro della giustizia, il quale si era ricusato dall’inchiesta di Russiagate. Il 45esimo presidente aveva interpretato quest’azione di Sessions come debole per non averlo protetto dal pericolo rappresentato dal procuratore speciale Robert Mueller.

Il sostituto di Sessions avrebbe dovuto essere  Rod Rosenstein, l’attuale vice al ministero di giustizia. Trump però ha deciso di nominare un ministro nuovo, probabilmente a termine. E cioè Matthew Whitaker, il quale ha in passato messo in dubbio l’inchiesta di Mueller sul Russiagate, che dovrebbe concludersi in tempi non lontani. La nomina di Whitaker, però,  è stata considerata da alcuni costituzionalisti illegale: persino da Andrew Napolitano, opinionista legale alla Fox News,  perché bypassa l’obbligata conferma del Senato. Poco importa per Trump. Mettendo un uomo di fiducia alla leadership della giustizia chiarisce che le commissioni alla Camera, finora sue protettrici,  finiranno con la conquista democratica della Camera.

*Domenico Maceri è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com).

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