di DOMENICO MACERI* – “Sono quasi sempre d’accordo con il presidente Trump, ma non in questo caso”. Queste le parole di Corey A. Stewart, candidato per il Senato in Virginia, in un’email al Washington Post. Stewart dissentiva dalla decisione del presidente americano di bloccare gli aumenti salariali ai dipendenti federali. L’inquilino della Casa Bianca aveva spiegato in un comunicato indirizzato a Paul Ryan, speaker della Camera, che “bisogna mettere il Paese su una strada fiscalmente sostenibile” e che gli aumenti non si possono giustificare considerando “l’emergenza nazionale”.
Stewart è uno dei più grandi sostenitori di Trump. Lo aveva persino difeso nei suoi momenti più bui, come nel caso delle rivelazioni del notissimo video di Hollywood in cui si sentiva che l’allora candidato repubblicano poteva approfittare delle donne. Stewart era rimasto al fianco di Trump anche quando questi aveva detto che i neonazisti non erano poi tanto negativi perché in una dimostrazione a Charlottesville c’erano stati problemi “da ambedue le parti”.
La diversa presa di posizione di Stewart sui salari sembra ammirevole, specialmente perché non rientra nell’ideologia repubblicana di difendere i lavoratori. Stewart però è tutt’altro che altruista. È candidato al Senato in Virginia e si trova in una situazione disastrosa essendo indietro di 23 punti, secondo un sondaggio, rispetto al concorrente democratico. Cioè ha poche speranze di sconfiggere il suo rivale Tim Kaine, attuale senatore e noto anche per essere stato il vice di Hillary Clinton nel 2016. Lo stato di Virginia contiene quasi 200mila dei 2,1 milioni di dipendenti federali e quindi Stewart non poteva che prendere le loro difese per cercare di limitare i danni.
Gli aumenti bloccati da Trump equivalgono al 2,1 per cento e, secondo il presidente, ammonterebbero a 25 miliardi di dollari. Escluse dal congelamento sarebbero le forze armate. In realtà si tratta di solo 2 miliardi in un bilancio annuale di 4100 miliardi. Da rilevare anche che il numero di dipendenti federali non aumenta dal 1989, quando la popolazione statunitense era di 246 milioni rispetto a quella attuale di 320 milioni.
La preoccupazione di Trump per il deficit sarebbe ragionevole se non emanasse odore di ipocrisia. Si ricorda che il 45esimo presidente l’anno scorso ha firmato una legge approvata dal suo partito che ha già peggiorato il deficit annuale e di conseguenza anche il debito federale. Solo nel mese di luglio 2018 il deficit è stato registrato a 77 miliardi di dollari, in aumento del 79 per cento in comparazione a luglio del 2017. Il deficit è aumentato del 21 per cento nei primi dieci mesi del 2018. Il Congressional Budget Office (CB0), l’agenzia federale non-partisan, ha calcolato che il deficit nel 2019 raggiungerà mille miliardi.
L’aumento del deficit è dovuto principalmente agli sgravi fiscali di cui hanno beneficiato in grandissima misura le classi abbienti considerando specialmente la riduzione delle imposte dal 35 al 21 per cento alle corporation.
L’impatto sul deficit della proposta di Trump di tagli salariali sarebbe minimo e riflette la mancanza di serietà fiscale non solo del 45esimo presidente ma anche del Partito Repubblicano. Si ricorda che il deficit e il debito nazionale sono temi di importanza per il Gop quando i democratici sono al potere. Adesso che i repubblicani controllano sia la Casa Bianca che le due Camere non si sente parlare di deficit. Il fatto che Trump abbia riaperto il discorso dovrebbe essere positivo ma in realtà è poco promettente.
Anche il congelamento degli aumenti non è cosa fatta perché la legislatura potrebbe agire per ripristinare gli aumenti. Il Senato infatti aveva votato un aumento dell’1,9 per cento per i dipendenti federali. La Camera non si era pronunciata ma adesso la sollecitazione ad agire sta aumentando poiché anche i parlamentari più conservatori, oltre ai democratici, sono favorevoli al modesto aumento. David Brat, per esempio, parlamentare del Virginia, membro del Tea Party, l’estrema destra del Gop, ha dichiarato che bisogna affrontare aggressivamente il bilancio “ma l’eliminazione dell’aumento ai dipendenti federali all’ultimo minuto non è la strada giusta”.
Ha ragione. La presa di posizione di Trump consiste diventa in realtà una guerra ai dipendenti federali, che servono i veterani, forniscono supporto alle forze armate, proteggono l’ambiente e aiutano le famiglie povere. Si calcola anche che un terzo di questi dipendenti federali sono veterani.
La ripresa economica iniziata con Barack Obama segue un percorso positivo, ma i benefici continuano in grande misura ad andare ai benestanti. Gli sgravi fiscali approvati da Trump, non necessari per stimolare l’economia, erano semplicemente un “regalo” ai più ricchi che in realtà non ne avevano bisogno. L’idea di bloccare il modestissimo aumento ai dipendenti federali ci conferma che il 45esimo presidente è incapace di identificarsi con la classe media. In questo caso però il suo partito lo potrebbe bloccare se non altro per minimizzare le probabili perdite alle elezioni di midterm che sono quasi alle porte.
*Domenico Maceri è PhD, University of California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.
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